Verdi e la fede

Quel Giuseppe Verdi che in una famosa lettera all’editore Ricordi si definiva “un po’ ateo”, è lo stesso la cui passione etica, con una particolare connotazione religiosa, appare continua in tutta la sua produzione.
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Verdi, esempio di fede cristiana

Il 16 febbraio 1866 Verdi scrisse al baritono Filippo Coletti: «[…] Quanto vi successe in Anagni non mi sorprende: tutti i piccoli paesi sono […] ipocriti, impossibili. Voi siete fuggito d’Anagni, ed io evito quanto posso di entrare in Busseto perché al pari di voi sono segnato a dito come ateo, superbo etc. etc. […]». Ancora oggi, ovunque, Verdi è considerato ateo.

Nessuno di noi è in grado di penetrare l’animo del Maestro per verificare la presenza del sentimento della pietà, sia nel significato più antico di devozione religiosa che nel concetto più recente di impulso verso l’amore, la compassione, il rispetto degli altri. Per tentare di conoscere più a fondo Verdi vi invito a lasciarvi guidare dalle parole di San Giacomo: «Tu hai la fede e io ho le opere, mostrami la tua fede senza le opere ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» e per rimanere nel breve spazio di questo scritto ci limiteremo a sfiorare due argomenti: i suoi brani sacri e le sue opere caritatevoli.

In un’epoca in cui all’interno della liturgia eseguivano musica in stile teatrale, sono convinto che Verdi conoscesse e condividesse le prescrizioni che la Chiesa cattolica pose come irrinunciabili ai compositori di musica sacra. Definite nei vari editti, regolamenti, sono: limitare la lunghezza dei brani; evitare una eccessiva ripetizione dei testi al fine di favorire la loro comprensione; evitare lo stile teatrale, tanto nel comporre (per esempio evitare gli accompagnamenti ritmici, l’elemento più sensuale che coinvolge fisicamente l’ascoltatore spingendolo al movimento), quanto nell’eseguire (pensiamo alle variazioni e le cadenze virtuosistiche inserite dai cantanti nei brani solistici); tenere in considerazione il canto gregoriano; ricercare la «gravità ecclesiastica» per favorire la contemplazione; privilegiare il contrappunto; utilizzare titoli desunti dalle parole della Chiesa o dalle Sante Scritture. Se ascoltiamo senza pregiudizi i brani con testi sacri che Verdi ha inserito nei suoi melodrammi, noteremo che il Maestro ha fatto sue le prescrizioni della Chiesa Cattolica, sin dalle prime opere, come la preghiera Salve Maria presente ne I Lombardi alla prima crociata. L’elaborazione del canto gregoriano lo possiamo ascoltare nell’introduzione organistica del finale del secondo atto ne La forza del destino. Verdi, infatti, ottiene l’ampliamento del carattere sacro armonizzando l’inizio del Benedicite Dominum, l’introito gregoriano della festività di San Michele Arcangelo, patrono della chiesa di Roncole, dove il bambino Verdi fu organista. Lo stile accordale-solenne, gli ha permesso di creare una semplice ma nobile grandiosità, ovvero la gravità ecclesiastica. Introduzione strumentale ottima per la successiva preghiera La Vergine degli Angeli in cui l’assenza di un ritmo marcato e virtuosismi vocali favoriscono la contemplazione, il dialogo con la Madre di Gesù.

Le prescrizioni di tenere in considerazione il canto gregoriano, di privilegiare il contrappunto e di ricercare uno stile musicale adatto ad ampliare e trasportare ai fedeli i significati dei testi sacri, sono ampiamente identificabili nella Messa da Requiem. Il 22 maggio 1874, alle ore 11 in San Marco a Milano, avvenne la prima esecuzione all’interno di una Liturgia che La nuova Illustrazione universale del 14 giugno definì «messa secca, cioè senza consacrazione del pane e del vino» (l’attuale Liturgia della Parola). Rito celebrato da mons. Giuseppe Calvi, preposto del Capitolo metropolitano, con paramenti liturgici che il critico Edoardo Spagnolo descrisse come «magnifiche vesti» nella sua recensione pubblicata da La Gazzetta di Milano il 26 maggio 1874. In essa il critico, ateo dichiarato, definì la Messa da Requiem «arte posta a servizio d’un principio che non so accettare, ma quelle melodie, […] sono pur sempre la glorificazione, l’apoteosi della fede». Manzoni, uomo di fede, non poteva ricevere omaggio migliore.

Limitandomi al solo Libera me, desidero condividere con voi l’emozione che provo all’ascolto della ripetizione del Requiem ascoltato all’inizio della Messa. È una citazione del Libro dellApocalisse di San Giovanni, là dove il Supremo Giudice, dopo la condanna dei peccatori al fuoco eterno e la discesa dal cielo della nuova Gerusalemme, afferma: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». E il brano angosciante ascoltato all’inizio della Messa, nel Libera è eseguito nella nuova e delicata versione per solo coro e in un ambito sonoro più acuto per indicare che l’angoscia iniziale è trasfigurata in un’estatica serenità perché nella nuova Gerusalemme, come scritto nell’Apocalisse «non vi sarà più morte, né lutto, né grido, né pena esisterà più, perché il primo mondo è sparito». Nel Libera me il credente supplica il Signore affinché non sia confuso con i peccatori e condotto al fuoco eterno descritto nel Dies Irae, ma di essere accolto nella nuova Gerusalemme. È la supplica di ognuno di noi, ma anche dello stesso Verdi che in una lettera all’amico editore Giulio Ricordi confidò la sua predilezione per il canto gregoriano del Libera Me Domine quando, da bambino, accompagnava con l’organo le messe da morto nella chiesa di Roncole.

Parlando della generosità del Maestro il pensiero corre all’Ospedale di Villanova, alla Casa di riposo per musicisti di Milano, alle numerose borse di studio, ai lasciti istituiti nel 1882 per aiutare ogni anno 33 famiglie povere di Busseto e 50 famiglie povere di Roncole, oltre alle abbondanti carità che, insieme alla moglie Giuseppina, compì tramite il canonico Don Giovanni Avanzi, parroco di Vidalenzo e suo amico sin dalla giovinezza. Ma non dobbiamo dimenticare quanto fece per le attività di Don Carlo Uttini, suo cugino da parte della mamma. Sacerdote e pedagogista, Don Carlo e le nipoti Guglielmina e Giulia, dal 1867 aprirono nella provincia di Piacenza numerosi Giardini dell’Infanzia, gli asili. Per quasi quarant’anni Verdi finanziò tutte le loro nuove attività educative e con il testamento dispose che parte del suo patrimonio fosse distribuito in favore degli asili di Piacenza, Cortemaggiore, Villanova e Genova.

Non fermiamoci al solo valore economico di queste beneficenze ma consideriamo anche le modalità con cui le realizzò: riservata, in forma anonima tramite persone di fiducia. Questo per non mettere a disagio i beneficiati, per non obbligarli a ringraziarlo in occasione di un qualsiasi incontro. Due soli esempi. Il primo riguarda l’Ospedale di Villanova. Il 15 aprile 1885 l’amico psichiatra Cesare Vigna, cui dedicò La Traviata, scrisse a Verdi: «Quando avrà luogo l’apertura del tuo ospedale? Nella mia qualità di direttore sanitario sentirei quasi un obbligo d’intervenire alla solenne inaugurazione». L’inaugurazione avvenne il 5 novembre 1888, tre anni dopo, e non fu per nulla solenne. Giuseppina Strepponi così la descrisse a Don Avanzi: «L’ospedale fu aperto lunedì senza apparato, semplicemente, come si dovrebbe fare tutte le opere di carità, come questa di Verdi, grande, umanitaria, santissima!». Cerimonia fedele al pensiero di Verdi: «L’inaugurazione, come la bramo io, è la seguente. Consisterà nell’ammissione dei primi dodici infermi. E basta. Non si convengono inutili cerimonie per un luogo di dolore». E a Ricordi, Verdi diede un ordine preciso: «la consegna è di tacere», ordine che non fu rispettato perché Ricordi, l’11 novembre, fece pubblicare un articolo sulla Gazzetta musicale. Il secondo esempio è relativo alla Casa che fece costruire a Milano per accogliervi i vecchi artisti non favoriti dalla fortuna. Acquistato il terreno nel 1889, l’anno successivo all’apertura dell’Ospedale di Villanova, la Casa fu terminata dieci anni dopo nel 1899, e Verdi per non apparire vanaglorioso chiese che fosse aperta dopo la sua morte, dopo la sua sepoltura insieme a Giuseppina, là, immerso nella sua opera più bella, al servizio dei suoi ospiti. Tutte queste situazioni mi richiamano alla mente l’Ave Maria inserita nell’Otello: «Maria, prega per chi adorando te si prostra, prega pel peccatore, per l’innocente e pel debole oppresso e pel possente, misero anch’esso, tua pietà dimostra».

Quando ai miei studenti introduco il coro verdiano più noto, il cosiddetto Va pensiero, mi piace far prima ascoltare loro il famoso canto ebraico Gam Gam Gam. Il carattere ritmato e gioioso trasmette la serenità della persona che si affida a Dio. Perché, come recita il testo tratto dal salmo 23, «Anche se andassi per le valli più buie di nulla avrei paura perché tu sei al mio fianco Il tuo bastone mi dà sicurezza». Anche il Va pensiero, ispirato al salmo 137, trasmette agli ascoltatori la serenità del credente. Con questo coro gli ebrei, schiavi in terra straniera, ricordano Gerusalemme distrutta e sgridano la cetra che non suona, che non li aiuta nel canto, sicuri che Dio li ascolterà e trasformerà il loro «patire in virtù». Verdi, a quelle parole, alla serenità ed eleganza della melodia, nella parte acuta dell’orchestra aggiunge una decorazione, un fregio, che dona ulteriore serenità e bellezza. Vi invito a indirizzare il vostro pensiero anche alle parole di Arrigo Boito, suo librettista e amico fidato che gli rimase vicino sino alla morte: «Egli ha dato l’esempio della fede cristiana per la commovente bellezza delle sue opere religiose, per l’osservanza dei riti, [e dobbiamo ricordare] ([…] la sua bella testa abbassata nella cappella di Sant’Agata). Sapeva che la fede è il sostegno dei cuori».

Dino Rizzo
Pubblicista di musicologia verdiana (University of Chicago - Ricordi, Cambridge University, Treccani), docente di musica.


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