Verdi a tavola

Se c’è un ambito della vita di Giuseppe Verdi in cui il suo essere “contadino delle Roncole” e contemporaneamente cittadino del mondo sembrano convivere in perfetto equilibrio, ebbene di sicuro è a tavola.
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Se c’è un ambito della vita di Giuseppe Verdi in cui il suo essere “contadino delle Roncole” e contemporaneamente cittadino del mondo sembrano convivere in perfetto equilibrio, ebbene di sicuro è… a tavola. Che il Maestro fosse inflessibile nel modo in cui controllava e gestiva, finanche in prima persona, quanti più aspetti possibile di una esecuzione musicale o del lavoro nelle sue terre, è noto. Non potevamo aspettarci nulla di meno entrando nella sua cucina. “Il Verdi non è goloso, ma raffinato; la sua tavola è veramente amichevole, cioè magnifica e sapiente: la cucina di Sant’Agata meriterebbe l’onore delle scene, tanto è pittoresca nella sua grandezza e varia nel suo aspetto di officina d’alta alchimia pantagruelica.” Così diceva Giuseppe Giacosa nel 1889 da giornalista e ospite privilegiato della villa di Sant’Agata. E aggiungeva “Non c’è pericolo che per indisposizione del cuoco il pranzo abbia a scapitare. A Sant’Agata, oltre il titolare, sono cuochi emeriti il giardiniere, il cocchiere ed una domestica, sicché: uno avulso non deficit alter. E notate che tutto questo apparato è essenzialmente ospitale. Il Verdi non è gran mangiatore, né di difficile contentatura. Sta bene a tavola come tutti gli uomini sani, savi e sobri, ma più di tutto ama veder raggiare intorno a sé, negli ospiti, la giocondità arguta e sincera che accompagna e segue le belle e squisite mangiate: è un uomo disciplinato e come tale crede che ogni funzione della vita debba avere il suo momento di prevalenza: è un artista e come tale considera, e con ragione, il pranzo quale opera d’arte”. Lo stesso Maestro doveva essere un cuoco provetto o almeno, a sentire Giuseppina, molto abile a fare risotti! E dobbiamo crederle se anche Camille Du Locle, direttore dell'Opera Comique di Parigi, richiese alla Strepponi la ricetta del “maître pour le risotto”.

Sotto la diretta dettatura del Maestro ecco la ricetta: "Mettete in una casseruola 2 once di burro fresco, 2 once di midollo di bue o vitello con un poco di cipolla tagliata. Quando questa ha preso il rosso mettete nella casseruola 16 once di riso di Piemonte, fate passare a fuoco ardente (rossoler) mischiandolo spesso con un cucchiaio di legno finché abbia preso un bel color d'oro. Prendete del brodo bollente, fatto con buona carne e mettetene 2 o 3 mescoli (deux ou trois cuilleres à soupe) nel riso. Quando il fuoco l'avrà a poco a poco asciugato rimettete poco brodo e sempre fino a perfetta cottura del riso. Avvertite però, che a metà della cottura del riso (dopo un quarto d'ora) bisognerà mettervi mezzo bicchiere di vino bianco, naturale e dolce: mettete anche una dopo l'altra 3 buone manate di Parmigiano grattato. Quando il riso sia completamente cotto, prendete una presa di zafferano sciolta in un cucchiaio di brodo e gettatela nel risotto, mischiatelo e ritiratelo dal fuoco, versatelo nella zuppiera. Avendo dei tartufi, tagliateli ben fini e spargeteli sul risotto a guisa di formaggio. Altrimenti metteteci formaggio solo, coprite e servite subito”.

Ovviamente Verdi esigeva la massimo qualità delle materie prime come olio, vino, pasta. L'olio preferito, anche rispetto a quello eccellente della Liguria (dove i coniugi Verdi trascorrevano i mesi freddi dell'inverno) era quello delle colline toscane: "due stagnate di olio sopraffino e due di olio più ordinarie per friggere”. Anche il vino come l'olio, in fiaschetti, che il maestro restituiva ben lavati :"favorisca mandarmi due casse di vino Chianti, uno marca rossa e uno marca gialla" chiedeva a Napoleone Melani, albergatore di Montecatini. La pasta, soprattutto i maccheroni, gliela procurava a Napoli l'amico Cesare De Sanctis: "Caro Cesare, siamo da qualche tempo senza vera pasta napoletana, quella che ci danno è spesso falsificata... vogliate farci spedire la seguente: peso e qualità. Pastina minuta assortita kg 10, assortita lunga di mezzana grossezza kg 5, più grossa kg 20, totale kg 80" così scriveva Giuseppina Strepponi nel maggio 1883. Anche quando la coppia, ormai celebre in tutto il mondo della lirica, partì per San Pietroburgo, per la prima di La forza del destino al Teatro Imperiale nel novembre 1861, si era fatta precedere da una notevole spedizione di cibi nostrani per garantire al maestro "buonumore in mezzo a ghiaccio e pellicce”. Così Giuseppina al fattore Corticelli: "potresti fare per noi le provviste dei seguenti generi: riso, maccheroni, formaggi e salumi. Quanto poi al vino, ecco il numero delle bottiglie e la qualità che Verdi desidererebbe: Numero 100 bottiglie piccole di Bordeaux per pasteggiare; numero 20 bottiglie di Bordeaux più fino; numero 20 bottiglie di champagne”. La coppia sarebbe stata accolta con il massimo degli onori in Russia eppure, nel ripartire, già desiderava tornare a Torino a mangiare i “gressini” famosi in tutto il mondo.

Testimone dell’amore per la buona tavola sono naturalmente i diversi carteggi che riportano consigli, suggerimenti, ricette e aneddoti sulla cucina. Il Maestro, esigente con cantanti e musicisti, lo era allo stesso modo in fatto di cuochi. La scelta dei cuochi per Verdi, risultò un vero e proprio grattacapo, testimonianza che ci viene fornita da diverse lettere di corrispondenza. Facile immaginare Verdi far fare al cuoco prove proprio come a un cantante; lo voleva “Abile manipolatore di cibi” e non “cattivo brucia pentole”. Da Genova, Verdi scrive a Giovanni Maloberti, già primo violino e mediatore per conto di Verdi negli acquisti di oggetti di antiquariato, mobili e quadri per le residenze di Sant’Agata e Genova, ma evidentemente uomo di fiducia per molte questioni: “Caro Maloberti, dopo Vienna sono venuto subito qui, né a Venezia. Non parlarmi né di quadri né di mobili. Ti ripeto ancora che non ne voglio e desidererei che tu desistessi dallo scrivermene. Io avrei bisogno di un’altra cosa, più materiale, se vuoi, ma più necessaria. Ho bisogno di un Cuoco; ma lo vorrei onesto, e capace, molto capace (…) Ci sarebbe a Piacenza? Bada che lo voglio buono e non un fanfarone: io voglio assolutamente un cuoco che sia un cuoco! Nel 1878 si rivolge ad un suo ex cameriere, Luigi Bizzi: “sappimi dire se a Reggio si può trovare un buon cuoco. Bada che io non voglio che sappia cucinare bene o male tre o quattro piatti casalinghi […] Spendo quello che vale, ma, ripeto, che sia un cuoco”; in un’altra richiesta spedita a Piacenza, Verdi scrive: “La ringrazio di essersi occupato del cuoco. Ceresini è stato due volte da me; assolutamente rinuncio a lui. Restano dunque gli altri due. Io sarò a Piacenza martedì mattina giorno 17. Mi mandi all’albergo l’uno dopo l’altro questi due cuochi, l’uno alle 11 ore, l’altro alle 12, e vedremo cosa si potrà combinare.

La tavola di Sant'Agata era una tavola ospitale e nelle lettere che Giuseppe e Giuseppina Verdi scrivono, ci sono inviti affettuosi agli amici. Così Giuseppe Verdi scriveva ad Arrigo Boito, suo librettista di Otello e Falstaff: "Caro Boito,...a domenica dunque, a mangiare la zuppa da noi" (Genova 21 febbraio 1889). E Giuseppina con grande semplicità e affetto il 18 gennaio 1861 invita Mauro Corticelli: "spero che verrai a mangiare con noi un buon stufato con la polenta”. Invita anche il sindaco Donnino Corbellini: “Il pavone ch’ella ha avuto la bontà di favorirmi è di già nel numero dei più, e Domenica ad un’ora farà la sua comparsa trionfale. Desidero che sia un’occasione ond’Ella cominci a trovar la strada di S. Agata per venire di tratto in tratto a mangiare una zuppa con noi. L’aspettiamo dunque Domenica, e senza cerimonia alcuna. Ad un’ora si mettono i piedi sotto la tavola.” Il pavone gliel’aveva regalato il Corbellini per abbellire il giardino della Villa.

Fu sotto la direzione della cuoca Ermelinda Berni che la cucina di Villa Sant’Agata diventò il salotto, dove il Maestro amava invitare i suoi amici più cari Arrigo Boito, i Ricordi, il conte Arrivabene, il soprano Teresa Stolz e pochissimi altri.

Eppure l’anima contadina emerge costantemente nei gusti del Maestro. La predilezione per i salumi della sua terra, la spalletta di San Secondo prima su tutti, trattata dal Maestro alla stregua di una sua composizione e degna, perciò, di essere accompagnata da “indicazioni per la messa in scena” rigorosissime: 1) metterla nell'acqua tiepida per circa 12 ore per onde levargli il sale 2) si mette dopo in acqua fredda e si fa bollire a fuoco lento, onde non scoppi per circa 3 ore e mezzo. Per sapere se la cottura è al punto giusto si fora la spalletta con un cure-dents e, se entra facilmente la spalletta è cotta 3) si lascia raffreddare nel proprio brodo e si serve. Guardate soprattutto alla cottura: se dura non è buona, se è troppo cotta diventa asciutta stopposa." (Indicazioni fornite a Teresa Stoltz)

E già ultra ottantenne - ma sempre legato alle tradizioni della sua terra - così scriveva all’amico Piroli: “Voi potrete fare allegramente il Cenone della vigilia, mangiare i Maroben ed il Cappone nel natale ed il Pollino (il tacchino) al 1° d’anno. Non so se noi potremo fare altrettanto perché io ho un po’ di tosse, e la Peppina ha pure la tosse e molto forte. Speriamo che passerà, o almeno diminuirà”. (Maroben è voce cremonese e sta per cappelletti, col ripieno di solo uova, formaggio e sapori, come si fanno appunto nel Bussetano).

Così ce lo racconta Arrigo Boito: “Il Maestro ama i pranzi prolissi e le opere concise. Cucina poderosa dei vecchi tempi. Gli piace anche la moderna quando è all’Hotel ed è finissimo assaporitore. Ma a casa sua… vuole le grandi fette di bue condite con la mostarda di Cremona, i funghi in aceto, la salsa verde. Quasi tutta la sua vita mangia, a desinare, un mezzo ovo sodo dopo l’arrosto. Il suo desinare in casa è composto di antipasti, d’una minestra, per solito sostanziosa (risotto, pasta asciutta, ravioli in brodo), d’un piatto di carne lessa, d’una frittura abbondante, d’un arrosto, d’un dolce formaggio, desert varii. Un’ora dopo il desinar fabbrica lui stesso il caffè.

Un breve cenno al pesce, che Verdi si faceva inviare dal mare o glielo regalava il medico veneziano Cesare Vigna: “Come t’avrà detto il telegrafo abbiamo ricevuto, mangiato e trovato buonissimo il pesce. Solo ne hai mandato una quantità tale che v’era pericolo che ti mandassi a prendere non per mangiare il pesce, ma per curare i disordini prodotti dal troppo mangiare”. E la spedizione di pesce Vigna l’aveva più volte ripetuta.

Un capitolo meritano anche i dolci. La corrispondenza con Opprandino Arrivabene è la fonte più ricca per testimoniare la golosità del Maestro e dell’amico nella incipiente vecchiaia. Sono frammenti che stralciamo da contesti molto più interessanti e importanti, artistici e politici soprattutto. Si comincia nel maggio 1862 con l’invio di grissini a Londra, proprio mentre Verdi è in partenza per Parigi: “Caro Arrivabene, ieri sera ricevei con grata sorpresa i cressini, e te ne ringrazio assai assai. Peccato che non siano arrivati qualche giorno prima che allora avrei avuto il tempo di divorarli tutti. “E torna sull’argomento una volta giunto a Parigi. Nel 1864 sono delle cialde in arrivo a Sant’Agata. Il 13 dicembre è Verdi ad affermare categoricamente, dopo un invio di torroni: “Le mandorle non vanno pelate (scienza torronesca) me n’han detto anche il motivo, ma non me lo ricordo più”. Ma il 23 ecco altri torroni partire per casa Arrivabene direttamente da Cremona.

Sotto Natale può arrivare a Genova un dono: “un canestrino con dentro un pezzo di roba doce” Per ricambiare ecco partire da Genova “una confutazione” costituita da frutta candita: “Caro Arrivabene, nemmeno per sogno ho voluto confutarti. Vivendo tra queste dolcezze non m’era mai accorto che Romanengo sapesse condire tanto squisitamente ogni sorta di frutta. Me lo dissero questa primavera alcuni di Parigi, a cui aveva mandato di quest’opere di Romanengo. Fatta questa scoperta ho voluto fartene parte. Ecco tutto”. Romanengo era pasticcere in Genova dove il Maestro fu visto più volte entrare.

Un maestro anche a tavola.

 


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