Il suo mondo


Verdi in prima pagina

Sulla stampa nazionale ed internazionale il volto di Verdi è ritratto spesso in primo piano e senza che alcun elemento ulteriore ne connoti la professione. Dalla notorietà alla mitizzazione di Verdi, il volto musicale dell’Italia
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Verdi, il volto dell’Italia

A partire dal 1846, anno in cui un ritratto di Giuseppe Verdi viene pubblicato, forse per la prima volta, su una rivista – l’inglese The Illustrated London News – la figura e il volto del compositore appaiono con frequenza crescente su giornali e riviste, di argomento musicale, teatrale e di informazione, di tutto il mondo. Fin da allora, egli inizia a essere identificato con la musica italiana tout-court. Nell’articolo che accompagna il ritratto sulla rivista inglese, si sostiene infatti, senza mezzi termini, che sulle spalle del nuovo compositore si reggono ormai le sorti della musica italiana e che grazie a lui riacquista vigore e nuovi stimoli la fama dell’Italia come “patria del canto”. Più di trent’anni dopo, ancora su una testata pubblicata a Londra, Vanity Fair, l’immagine di Verdi – caratterizzata dagli attributi propri del maestro concertatore: la bacchetta e il leggio – viene assunta quale icona della musica italiana, come attesta la didascalia sotto il ritratto, che recita semplicemente “Italian Music”. Dopo quattro decenni di carriera, la fama internazionale del compositore è attestata da numerose immagini, spesso ispirate da schizzi dal vero, che lo colgono soprattutto nell’atto del dirigere. Ma dagli anni Ottanta la stampa italiana e straniera inizia a fissare e consacrare la sua fisionomia con ritratti in primo piano, collocati in genere sulla prima pagina del giornale, in cui il compositore appare senza che alcun elemento ulteriore ne connoti la professione. Si tratta di un segno indubbio di notorietà che rappresenta l’inizio della mitizzazione di Verdi: un processo che riguarda non solo la dimensione artistica, ma anche, e soprattutto, la sua assunzione quale figura di riferimento in campo morale, civile e politico. Alla fine del secolo il vecchio compositore rappresenta ormai “la gloria vivente d’Italia”, come recita la didascalia della prima pagina della Tribuna Illustrata della Domenica dell’11 marzo 1900, ed è probabilmente l’italiano contemporaneo più famoso nel mondo, come scriverà l’anno successivo Arthur Pougin su La Vie Illustrée di Parigi, nel necrologio per la morte del compositore. La consacrazione di Verdi, simbolo di collegamento fra l’Italia del re e l’Italia del popolo, ancor più che musicista, come giustamente evidenziato da Giorgio Bocca, si ha nel primo centenario della nascita nel 1913.

“In questa fase – scrive Marco Capra, curatore della mostra insieme a Raffaella Carluccio - viene maturando la connotazione oggi più tipica di Giuseppe Verdi, fondata sui due ritratti che Giovanni Boldini eseguì nel 1886: il grande ritratto a olio conservato a Milano nella Casa di Riposo per Musicisti, e il piccolo pastello conservato nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Quest’ultimo, in particolare, diviene nella seconda metà del Novecento il marchio identificativo di Verdi. Non vi sono molti altri casi in cui i tratti fisici e simbolici distintivi di una persona si siano alla fine concentrati in modo così efficace in una sola, riconoscibile e condivisa rappresentazione iconografica. Quella del volto musicale dell’Italia»

*Tratto dal catalogo “Verdi, il volto musicale dell’Italia. - Forma e significato dell’immagine di Giuseppe Verdi nella stampa periodica dall’Ottocento a oggi”. La mostra, realizzata nel 2013 per il secondo centenario verdiano, nasce dalla mostra Verdi in prima pagina che nel 2009 fu dedicata alla presenza del compositore nella stampa periodica internazionale e come quella del 2009, realizzata in stretta collaborazione fra l’Istituzione Casa della Musica del Comune di Parma e il Centro Internazionale di Ricerca sui Periodici Musicali.

Ideazione e direzione mostra: Marco Capra e Raffaella Carluccio
Organizzazione: Istituzione Casa della Musica Centro Internazionale di Ricerca sui Periodici Musicali (CIRPeM)
Immagini: collezione privata Marco Capra

Tito e Giulio Ricordi

Di un sodalizio fondato su reciproca stima e affine sensibilità, tra il Maestro e i suoi principali editori, parlano le centinaia di lettere che Verdi e Giulio Ricordi si corrisposero nell’arco di circa quarant’anni.
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Tito e Giulio Ricordi

La casa editrice Ricordi venne fondata da Giovanni Ricordi (Milano, 1785 – ivi, 15 marzo 1853), il quale nel 1808 aprì a Milano una tipografia musicale di fronte al Duomo per poi trasferirsi dal 1815 nei pressi del Teatro alla Scala. Nonostante Giovanni fosse stato il primo editore di Verdi, il Maestro ebbe come interlocutori privilegiati di Casa Ricordi il primogenito Tito, prima e poi il figlio di quest’ultimo, Giulio, che entrò nella ditta di famiglia nel 1863. Verdi ebbe rapporti spesso difficili con i suoi editori; non furono rari i contrasti legati, in particolare, ai compensi proposti e a diritti degli editori non sempre compresi o accettati dal Maestro.

Significativo il duro scambio con Giovanni causato da un equivoco (per meglio dire da una disattenzione di Verdi) sui diritti della traduzione francese di Luisa Miller. La situazione non migliorò con il passaggio di testimone a Tito, il quale sulla questione riguardante il noleggio de Il trovatore, così si rivolse al Maestro: «Si pretende […] che pel nolo del Trovatore […] aggiungesti altra piccola somma a causa di ritardo da te preteso dannoso per vendita di stampa. Se ciò è vero, mi permetto dirti che è cosa non bella […], speravo che non ti saresti servito di queste sottigliezze con me, che tante e tante volte ho fatto ben più di quello che doveva; con me, che sono in gran parte l’origine della tua colossale fortuna!» (24 ottobre 1855). Sull’altro fronte, Verdi nel 1874 pretese chiarimenti da Tito circa presunte irregolarità nella gestione dei diritti d’autore: «Io voglio distinguere Tito Ricordi, dall’Editore, ed è per questo che domando a Tito Ricordi di dirmi francamente come stanno le cose; ché se i gerenti dell’Editore non hanno avuta cura de’ miei interessi, ciò malgrado io non metterò Tito Ricordi nell’imbarazzo d’una lite: ma permettimi di dire ancora una volta che la Casa Editrice ha trattato con me senza considerazione alcuna» (11 marzo 1874). Nonostante le incomprensioni, spesso smussate dall’intervento mediatore di Giuseppina Strepponi, fu sempre altissima la considerazione di Verdi per la famiglia Ricordi. Verdi scrive ad un amico: "Unitamente a questa mia, riceverete dalla Ferrovia una cassetta contenente due spallette uso San Secondo, che noi mandiamo una per voi e una per la famiglia Ricordi. Scegliete quella che volete. Badate che, per cuocere bene la spalletta bisogna: 1)metterla nell’acqua tiepida per circa due ore, onde levargli il sale. 2)Si mette dopo in altra acqua fredda, e si fa bollire a fuoco lento, onde non scoppi, per circa tre ore e mezzo, e forse quattro la più grossa. Per saper se la cottura è al punto giusto, si fora la spalletta con un cure-dents e, se entra facilmente, la spalleta è cotta. 3)Si lascia raffreddare nel proprio brodo e si serve. Guardate soprattutto alla cottura; se è dura non è buona, se è troppo cotta diventa asciutta e stopposa". Con l’ingresso di Giulio Ricordi nella storica casa editrice, Verdi poté finalmente relazionarsi con un interlocutore di alto profilo intellettuale la cui gestione della società (tale fu il profilo assunto dalla ditta sotto la gestione di Giulio, operazione agevolata dallo stesso Verdi, che prestò all’editore 200.000 lire) coincise sia con il ritorno in pianta stabile del Maestro nel cartellone delle stagioni d’opera della Scala, sia con il lancio internazionale degli ultimi capolavori verdiani: Otello, prima partitura pubblicata a stampa nei torchi di Casa Ricordi, e Falstaff.

Di un sodalizio fondato su reciproca stima e affine sensibilità, parlano poi le centinaia di lettere che Verdi e Giulio Ricordi si corrisposero nell’arco di circa quarant’anni.

Imprenditore agricolo

L’altra opera di Giuseppe Verdi è certamente quella che lo vide impegnato, per tutta la vita, in una intensa attività quale proprietario terriero innovatore e testimone delle sorti dell’Italia Unita legate allo sviluppo dell’agricoltura. 
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Verdi imprenditore agricolo
Nell’aprile 1844, grazie ai proventi dell’Ernani, opera andata in scena un mese prima alla Fenice di Venezia, Giuseppe Verdi decise di acquistare la possessione Pulgaro a Roncole di Busseto. Il maestro aveva trentun anni, il suo nome era già parecchio noto anche all’estero – non solo ai cultori musicali –, il curriculum contava titoli come Oberto conte di San Bonifacio, Un giorno di regno, Nabucco e I Lombardi alla prima crociata.

La scelta del podere, di circa ventiquattro ettari, cadde nella zona della sua “pianuraccia”. Joseph Fortunin François Verdi, figlio di Carlo e Luigia Uttini, era infatti venuto alla luce il 10 ottobre 1813 proprio a Roncole e a quella terra, generosa sì ma non sempre di facile resa, Verdi legherà le vicende della sua lunga esistenza. Una terra che era al contempo fonte di investimento, strumento di legittimazione sociale, ma anche via di ricongiungimento con i luoghi di nascita, come ebbe modo di dire al giornalista tedesco von Winterfeld in visita a Sant’Agata nel 1883 (Conati, 1980):

“Quando mi arrise la fortuna e fui in grado di mettere su casa nelle più belle zone della mia patria, acquistai questo terreno allora trascurato e deserto, sul quale tutto era brutta natura, perché situato nelle mie vicinanze del luogo di nascita e della città in cui trascorsi i miei anni giovanili, esso possedeva per me il fascino natio e mi o riva spazio per il mio bisogno di operare”.

Dopo qualche anno, grazie ai proventi di altre opere, Verdi permutò Pulgaro con la tenuta di Sant’Agata, posta nel comune di Villanova d’Arda, destinata a divenire sua dimora abituale nei mesi primaverili ed estivi (in inverno dimorava a Genova). Questo complesso, significativo esempio di “dimora di delizia” piuttosto di uso nella pianura emiliana, si trasformò gradualmente in un’azienda-corte, cuore di un complesso di possessioni distese tra il Po, l’Arda e l’Ongina. Nella terra, che era «il mio deserto e il mio cielo», la «bicocca decentemente abitabile» divenne di fatto una bella villa, con un magni co giardino. Verdi infatti dimostrò da subito una grande passione per il giardinaggio. Ordinò molte piante e ori, anche esotici, allo stabilimento Burdin Maggiore di Milano, fondato da una dinastia di vivaisti piemontesi, e più tardi divenne un ottimo cliente dei fratelli Ingegnoli.

È proprio da Sant’Agata che iniziò il percorso di Verdi imprenditore agricolo (Cenzato, 1949):

“Ampliò quella che era la rustica casa colonica, la abbellì, si trasformò in architetto. Badò soprattutto a crearle intorno un parco, una grande aureola verde, che doveva essere il suo lusso e che si ingigantì con la sua gloria. Dietro a Sant’Agata venne l’acquisto dei fondi, l’onesta ma vigile speculazione, l’impiego sapiente dei soldi che venivano sempre più copiosi. Ecco come Verdi che minacciava di essere un parigino divenne l’agricoltore”.

Dal 1851 al 1891 Verdi continuò ad acquistare, sia pure con periodicità discontinua, appezzamenti e complessi, divenendo un facoltoso possidente terriero. Gli acquisti di Pulgaro e di Sant’Agata costituirono infatti la prima tappa di un percorso di ascesa sociale e patrimoniale che permisero al Maestro di acquisire lo status di grande proprietario terriero, titolare di una miriade di piccoli e grandi poderi estesi su oltre 700 ettari, siti nei comuni di Villanova, Fiorenzuola, Cortemaggiore, Besenzone, Busseto e Gerre del Sole nel Cremonese (Phillips-Matz, 1992; Cafasi, 1994; Chini, 2013). Sono diversi i criteri e le valutazioni che mossero Verdi nell’acquisto della terra: dall’accorpamento dei fondi finitimi alla stima dell’assetto idrico, dalla resa produttiva degli appezzamenti alla presenza di vigne di qualità. Grandi tenute (Sant’Agata, di 107 ettari, Piantadoro di 207 ettari, acquistato nel 1854 e Castellazzo di 213 comprato nel 1875, tutti nel comune di Villanova), ma anche medi e piccoli poderi formarono il complesso delle “terre verdiane”, la “pianuraccia” appunto, come la definiva lo stesso Verdi. Al con ne nord-orientale tra Parma e Piacenza, segnata dalla diffusione della piccola e media proprietà, dalla prevalenza della produzione granaria e da una buona rete di comunicazioni stradali, la zona “verdiana” si presentava con un carattere fortemente parcellizzato, con pochi terreni aventi un’estensione superiore ai cento ettari. Il paesaggio tipico, costruito e disegnato dal lavoro paziente e tenace dell’uomo, era quindi per lo più dominio della piccola e media proprietà locale, caratterizzato dalla quasi uniforme destinazione ad aratorio, il cui prodotto era destinato in parte all’autoconsumo, in parte al mercato locale (Spigaroli, 1996).

Quelle terre Verdi, cresciuto in una famiglia di piccoli proprietari terrieri e locandieri, le conosceva bene perché lì aveva trascorso la sua infanzia e giovinezza. A Roncole Carlo Verdi e Luigia Uttini, avevano avviato, alla ne del Settecento, una bottega, ove la gente dei dintorni, specialmente la domenica, andava ad acquistare farina, zucchero, liquori, sale e tabacco. Una sorta di spaccio-osteria dove, oltre a zucchero e farina, circolavano le informazioni. In questo modesto locale passavano e si incontravano, discutendo di raccolti e di mercati, contadini, fattori, allevatori artigiani, piccoli proprietari e mediatori. Qui il giovane Verdi maturò anche una certa dimestichezza con i libri contabili, affinando di certo la capacità di “far di conto” e di “contrattare” con le persone. Acquisendo tante terre, divenne un proprietario attento e scrupoloso, esigente nei confronti dei suoi agenti rurali e dei suoi lavoratori, ai quali non risparmiava certo strigliate di ogni sorta. Quando era a Sant’Agata trascorreva le «giornate di a ari, di cifre, di conti con contadini e pastori», in giro per campi, caselli e mulini. Fattori, mezzadri, famiglie coloniche e lavoratori stagionali popolavano il suo universo, un piccolo microcosmo autosufficiente sì, ma aperto al commercio. Nelle possessioni verdiane si coltivava e si vendeva di tutto: il grano e la melica, il prato (erba medica e trifoglio), l’uva e il vino, i bozzoli, il legno dei boschi rivieraschi, i prodotti dell’orto. Molto importanti erano le entrate derivate dalla bachicoltura, dalla coltivazione dell’uva, dalla vendita dei prodotti dell’orto e dalla piantagione di pioppi nel- le zone rivierasche. L’economia poderale delle possessioni era a orientamento cerealicolo-zootecnico, con la presenza rimarchevole di bestiame bovino, necessario sia per il lavoro nei campi, sia per la produzione di carne e di latte.

Con qualche idea innovativa e un’esperienza che si accresceva di mano in mano, Verdi, pur senza modi care sostanzialmente l’ordinamento produttivo di quelle terre, volle perseguire un miglioramento delle rese produttive. Agronomo autodidatta, cercò di perfezionare l’assetto idrico (quanti sforzi per la tenuta degli argini!), costruì nuovi fabbricati e introdusse il prato in rotazione: molto fu l’impegno profuso dal maestro per la messa a coltura di nuove terre e per una riorganizzazione del sistema aziendale, a partire dagli edifici destinati alla produzione (stalle in particolare). Con un occhio ai progressi agricoli provenienti dalla Francia e dall’Inghilterra, Verdi, tra un’opera e l’altra, visitò anche alcune tenute italiane particolarmente all’avanguardia, come quella di Leri, nel Vercellese, di proprietà dell’amico Camillo Benso di Cavour. Ma mostrò anche attenzione per la situazione sociale delle campagne e per il grave problema dell’emigrazione. E, non ultimo, ci fu nel Maestro una grande sensibilità nei confronti delle esigenze dell’agricoltura reale come si legge in una lettera scritta il 21 ottobre 1891 al Giornale genovese «Il Caffaro» di Genova:

“Ma poiché ella mi parla d’agricoltura, di cui io non sono che un semplice dilettante, io vorrei che questa nobilissima scienza fosse maggiormente coltivata da noi. Quale fonte di ricchezza per la nostra patria! Un po’ meno di musicisti, di avvocati, di medici, e un po’ più di agricoltori: ecco il voto che faccio per mio paese”.

La biblioteca di Sant’Agata era ricca di titoli inerenti il giardinaggio e l’agricoltura. La passione per i ori e per le piante ornamentali lo portarono a leggere diversi manuali francesi (Louis François Du Bois, Nouvelle pratique simpli ée du jardinage, à lusage des personnes qui cultivent elles-mêmes un petit domaine, Paris, Libraire encyclopedique de Roret, 1846 e Vilmorin-An-drieux, Les eurs de pleine terre comprenant la description et la culture des eurs annuelles, vivaces et bulbeuses de pleine terre, Paris, chez Vilmorin-Andrieux & C.ie, 1863). Di provenienza francese erano anche i testi dedicati a un’altra grande passione di Verdi: la coltivazione dell’uva e la produzione di vino. Ma accanto al celebre manuale in due tomi Traitè theorique et pratique sur la culture de la vigne, avec lart de faire le vin, les eaux-de-vie, esprit-de-vin, vinaigres simples et composes di Rozier, Parmentier e Chaptal, edito a Parigi da Delalain, troviamo anche Larte di fare il vino insegnata ai cantinieri di Ottavio Ottavi (Casale Monferrato, Tipografia sociale del Monferrato, 1876) Eureka!Eureka! Nuovo metodo per fare frutti care abbondantemente le viti anche in anni sfavorevoli (Casale Monferrato, 1878). Nella biblioteca agricola di Sant’Agata figuravano anche diversi testi di Giuseppe Antonio Ottavi, al quale Verdi si rivolse direttamente per avere alcune pubblicazioni. Ottavi (1818-1885), professore di agraria a Casale Monferrato, fu uno dei più noti propagandisti agrari della seconda metà dell’Ottocento, spesso anche a Piacenza per tenere alcune conferenze agrarie. Il suo testo più famoso, I segreti di don Rebo, uscì in nove edizioni dal 1853 al 1889 (Verdi ebbe la prima edizione).

L’ascesa patrimoniale di Verdi e l’organizzazione agronomica delle sue possessioni ben si inquadrano nel contesto dello sviluppo dell’agricoltura piacentina tra Otto e Novecento. La storia agraria di Verdi incrociò, per tanti aspetti, le vicende dell’agricoltura locale. Al momento dell’unificazione una generale arretratezza contraddistingueva infatti le campagne di questa zona. Il contesto era quello di un ordinamento policolturale, caratterizzato oltre che da un’intesa consociazione tra le piante erbacee, dalla forte promiscuità di quest’ultime con le colture arboree e arbustive. A partire dagli anni ottanta dell’Ottocento, e grazie allo spirito di intraprendenza della moderna borghesia terriera, si avviò, nelle terre di pianura, un processo di specializzazione agraria, segnato dallo sviluppo dell’allevamento bovino, dal miglioramento delle rese granarie, dall’introduzione di nuove attrezzature e da un’e cace integrazione tra agricoltura, industria e propaganda agraria. All’inizio del nuovo secolo, oltre a uno straordinario ammodernamento del settore primario, si registrerà poi un primo decollo di quei settori, basati per lo più sull’interconnessione con l’industria, che diverranno poi tipici dell’industria agro-alimentare piacentina e parmense. Il graduale progresso, uscito da due decenni di crisi agraria, si concretizzò in terra emiliana in tre direzioni: l’allevamento integrato bovino-suino che, con il ciclo della lavorazione del latte, portò la produzione casearia ai massimi livelli; il settore conserviero che integrò stabilmente la produzione dei campi alla produzione delle fabbriche di pomodoro, la coltivazione della barbabietola da zucchero e l’impianto degli zuccheri ci. L’introduzione di produzioni specializzate ad alto valore aggiunto rimodellò, agli inizi del Novecento, il paesaggio ereditato dal passato, condizionando la magliatura del nuovo spazio organizzato. Mentre in collina le moderne cantine divennero il simbolo della centralità della vite, in pianura le stalle, i caselli e le fabbriche di pomodoro e di zucchero si configuravano come segni tangibili di un nuovo sistema specializzato per prodotto. Anche nelle terre verdiane cambiò rapidamente il paesaggio antropologico ed economico: furono le nuove stalle e i caselli/caseifici a segnare anche visivamente il passaggio a una nuova agricoltura. I poderi di questa area, avviati decisamente verso l’allevamento e la produzione lattiero-casearaia, iniziarono così a orientare la loro dimensione in funzione delle colture pratensi, anche se la cerealicoltura restava di fatto l’asse portante del sistema agrario.

L’innovazione nelle campagne piacentine e parmensi passò attraverso l’azione di tecniche in grado di avviare un procedimento di diversificazione colturale, adatta alle differenti vocazioni ambientali e al nuovo andamento dei mercati sul piano della domanda. Interpreti di questo nuovo atteggiamento furono i membri di quella élite agraria, composta per la maggior parte di possidenti che, alla guida delle aziende agricole di famiglia, cercano di adeguarne la produzione alle esigenze di mercato, facendo dell’agricoltura uno strumento di accrescimento e di consolidamento dei patrimoni familiari, con scelte produttive orientate alla massimizzazione del prodotto (Banti, 1989). Questa classe agraria, capace di mettere in atto forme di sfruttamento della terra di tipo lombardo e di mostrarsi all’avanguardia nella creazione di strumenti organizzativi del padronato e dell’imprenditoria, sarà protagonista di alcune delle più importanti esperienze di interconnessione tra agricoltura e industria della trasformazione dei prodotti agricoli. Verdi ebbe modo di conoscere bene alcuni di questi protagonisti e di mutuare, per certi aspetti, la loro esperienza. Il Maestro fu amico e in corrispondenza con diversi agricoltori piacentini. Tra questi, Luigi Zangrandi, medico, direttore dell’Ospedale di Piacenza, fondatore, nel 1862, del Comizio agrario, il quale, nella sua proprietà di Mercore di Besenzone, creò un grande magazzino di attrezzi agricoli. Verdi intrattenne inoltre cordiali rapporti di amicizia con diversi membri della famiglia Fioruzzi, proprietari di estesi pos- sedimenti alle porte di Piacenza: Carlo, che fu anche suo avvocato, Ulisse e Attilio, provetti costruttori meccanici, ed Emilio, attivo sostenitore della specializzazione zootecnica.

Oltre al reticolo di amicizie, l’accoglimento e la trasmissione dell’innovazione agraria passava allora attraverso diversi altri canali, quali la frequentazione di mercati ed esposizioni. Il Maestro non disdegnava di recarsi presso i mercati della zona, come quelli di Fiorenzuola a Borgo San Donnino. Non solo, ma la visita di fiere agricole, molto numerose a quell’epoca, permise a Verdi di prendere visione delle novità agrarie, soprattutto nel settore della meccanica e degli aratri in particolare, per i quali nutriva una vera passione.

Giuseppe Verdi amava molto scrivere. Nelle lettere, con gli agenti rurali in primis, ma anche con gli amici, discuteva di condizioni del tempo, di alleva- mento, di prezzi delle granaglie, del vino e del bestiame. Tra gli epistolari più significativi troviamo quello con il conte e giornalista mantovano Opprandino Arrivabene, al quale spesso descriveva la sua vita in campagna, segnata da molteplici impegni. Nelle possessioni verdiane c’era infatti sempre un gran fermento. Non poteva essere altrimenti, dal momento che il Maestro ci teneva a fare il contadino, ma anche il magut (il muratore), senza mai dimenticare di essere il “direttore” dei suoi operai (Alberti, 1931).

“Caro Arrivabene, il maestro Verdi si trova o sulla ferrovia di Genova o in un pozzo a Sant’Agata. Mi spiego. Questo predetto signor maestro gli è venuto in testa di far costruire una macchina a vapore per estrarre acqua da un torrentello che scorre presso la sua casa: per ottenere l’intento gli è d’uopo di un condotto sotto terra alla profondità di sei metri della lunghezza di 25: più un pozzo profondo quasi 7 metri. A quella profondità si trova una massa abbondante di acqua e sabbia che rende il lavoro murario estremamente difficile. Il prelodato maestro trovasi tutto il giorno là in fondo un po’ per incoraggiare i lavoranti, un po’ per strapazzarli e soprattutto per dirigerli. Dirigerli?!!!! È questo il debole del signor maestro. Se tu gli dici che il Don Carlos non val niente non gliene importa un fico, ma se tu gli contrasti la sua abilità nel fare il magut, se n’ha a male”.

La fama di Verdi come agricoltore – e non solo come compositore – iniziò a diffondersi presto anche all’estero. Nel 1887 lo scrittore e giornalista scozzese Samuel Smiles parlò di Verdi nell’opera Vita e lavoro: studio sugli uomini insigni per operosità, cultura e ingegno, tradotta in Italia l’anno successivo dalla casa editrice Barbera.

L’occupazione prediletta del grande compositore Verdi, che di recente, all’età di 73 anni ha meravigliato il mondo colla sua opera Otello, fu un tempo quella abbastanza prosaica di fare il fattore. S’intendeva di raccolti e di bestiame quanto di contrappunto e di basso numerato. I fattori dei dintorni della sua villa di Sant’Agata lo consideravano come un’autorità in materia di coltivazione del terreno e lo consultavano sulla rotazione della semente e sull’allevamento del bestiame.

Qualche anno prima, nel 1883, buona parte dell’intervista rilasciata al giornalista tedesco von Winterfeld in visita a Sant’Agata venne dedicata alla ricostruzione del suo percorso agrario:
Non pensate che io qui abbia trovato tutto in ordine come lo vedete adesso. È tutto fatiche di anni. Risiedere in un podere bene ordinato o in una graziosa villa mi sarebbe piaciuto poco. Prima questi campi dovevano essere coltivati, i frutteti piantati, la mia casa e i miei granai costruiti e il mio parco, allora una macchia incolta, creato.

Alla morte, avvenuta il 27 gennaio 1901, anche il mondo agrario piacen- tino rese omaggio al Maestro. Il «Giornale di agricoltura della domenica», organo della Federconsorzi diretto da Giovanni Raineri, gli dedicò una bella prima pagina, ricordando il suo impegno a favore dei lavoratori della terra e la volontà testamentaria di istituire due borse di studio a favore di studenti di agraria residenti nella zona.

Daniela Morsia


Dagli atti della Giornata di studio “Giuseppe Verdi Agricoltore”, Accademia dei Georgofili, Firenze, 29 aprile 2014
Daniela Morsia - Biblioteca comunale Passerini-Landi, Piacenza

 

Verdi e la fede

Quel Giuseppe Verdi che in una famosa lettera all’editore Ricordi si definiva “un po’ ateo”, è lo stesso la cui passione etica, con una particolare connotazione religiosa, appare continua in tutta la sua produzione.
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Verdi, esempio di fede cristiana

Il 16 febbraio 1866 Verdi scrisse al baritono Filippo Coletti: «[…] Quanto vi successe in Anagni non mi sorprende: tutti i piccoli paesi sono […] ipocriti, impossibili. Voi siete fuggito d’Anagni, ed io evito quanto posso di entrare in Busseto perché al pari di voi sono segnato a dito come ateo, superbo etc. etc. […]». Ancora oggi, ovunque, Verdi è considerato ateo.

Nessuno di noi è in grado di penetrare l’animo del Maestro per verificare la presenza del sentimento della pietà, sia nel significato più antico di devozione religiosa che nel concetto più recente di impulso verso l’amore, la compassione, il rispetto degli altri. Per tentare di conoscere più a fondo Verdi vi invito a lasciarvi guidare dalle parole di San Giacomo: «Tu hai la fede e io ho le opere, mostrami la tua fede senza le opere ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» e per rimanere nel breve spazio di questo scritto ci limiteremo a sfiorare due argomenti: i suoi brani sacri e le sue opere caritatevoli.

In un’epoca in cui all’interno della liturgia eseguivano musica in stile teatrale, sono convinto che Verdi conoscesse e condividesse le prescrizioni che la Chiesa cattolica pose come irrinunciabili ai compositori di musica sacra. Definite nei vari editti, regolamenti, sono: limitare la lunghezza dei brani; evitare una eccessiva ripetizione dei testi al fine di favorire la loro comprensione; evitare lo stile teatrale, tanto nel comporre (per esempio evitare gli accompagnamenti ritmici, l’elemento più sensuale che coinvolge fisicamente l’ascoltatore spingendolo al movimento), quanto nell’eseguire (pensiamo alle variazioni e le cadenze virtuosistiche inserite dai cantanti nei brani solistici); tenere in considerazione il canto gregoriano; ricercare la «gravità ecclesiastica» per favorire la contemplazione; privilegiare il contrappunto; utilizzare titoli desunti dalle parole della Chiesa o dalle Sante Scritture. Se ascoltiamo senza pregiudizi i brani con testi sacri che Verdi ha inserito nei suoi melodrammi, noteremo che il Maestro ha fatto sue le prescrizioni della Chiesa Cattolica, sin dalle prime opere, come la preghiera Salve Maria presente ne I Lombardi alla prima crociata. L’elaborazione del canto gregoriano lo possiamo ascoltare nell’introduzione organistica del finale del secondo atto ne La forza del destino. Verdi, infatti, ottiene l’ampliamento del carattere sacro armonizzando l’inizio del Benedicite Dominum, l’introito gregoriano della festività di San Michele Arcangelo, patrono della chiesa di Roncole, dove il bambino Verdi fu organista. Lo stile accordale-solenne, gli ha permesso di creare una semplice ma nobile grandiosità, ovvero la gravità ecclesiastica. Introduzione strumentale ottima per la successiva preghiera La Vergine degli Angeli in cui l’assenza di un ritmo marcato e virtuosismi vocali favoriscono la contemplazione, il dialogo con la Madre di Gesù.

Le prescrizioni di tenere in considerazione il canto gregoriano, di privilegiare il contrappunto e di ricercare uno stile musicale adatto ad ampliare e trasportare ai fedeli i significati dei testi sacri, sono ampiamente identificabili nella Messa da Requiem. Il 22 maggio 1874, alle ore 11 in San Marco a Milano, avvenne la prima esecuzione all’interno di una Liturgia che La nuova Illustrazione universale del 14 giugno definì «messa secca, cioè senza consacrazione del pane e del vino» (l’attuale Liturgia della Parola). Rito celebrato da mons. Giuseppe Calvi, preposto del Capitolo metropolitano, con paramenti liturgici che il critico Edoardo Spagnolo descrisse come «magnifiche vesti» nella sua recensione pubblicata da La Gazzetta di Milano il 26 maggio 1874. In essa il critico, ateo dichiarato, definì la Messa da Requiem «arte posta a servizio d’un principio che non so accettare, ma quelle melodie, […] sono pur sempre la glorificazione, l’apoteosi della fede». Manzoni, uomo di fede, non poteva ricevere omaggio migliore.

Limitandomi al solo Libera me, desidero condividere con voi l’emozione che provo all’ascolto della ripetizione del Requiem ascoltato all’inizio della Messa. È una citazione del Libro dellApocalisse di San Giovanni, là dove il Supremo Giudice, dopo la condanna dei peccatori al fuoco eterno e la discesa dal cielo della nuova Gerusalemme, afferma: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». E il brano angosciante ascoltato all’inizio della Messa, nel Libera è eseguito nella nuova e delicata versione per solo coro e in un ambito sonoro più acuto per indicare che l’angoscia iniziale è trasfigurata in un’estatica serenità perché nella nuova Gerusalemme, come scritto nell’Apocalisse «non vi sarà più morte, né lutto, né grido, né pena esisterà più, perché il primo mondo è sparito». Nel Libera me il credente supplica il Signore affinché non sia confuso con i peccatori e condotto al fuoco eterno descritto nel Dies Irae, ma di essere accolto nella nuova Gerusalemme. È la supplica di ognuno di noi, ma anche dello stesso Verdi che in una lettera all’amico editore Giulio Ricordi confidò la sua predilezione per il canto gregoriano del Libera Me Domine quando, da bambino, accompagnava con l’organo le messe da morto nella chiesa di Roncole.

Parlando della generosità del Maestro il pensiero corre all’Ospedale di Villanova, alla Casa di riposo per musicisti di Milano, alle numerose borse di studio, ai lasciti istituiti nel 1882 per aiutare ogni anno 33 famiglie povere di Busseto e 50 famiglie povere di Roncole, oltre alle abbondanti carità che, insieme alla moglie Giuseppina, compì tramite il canonico Don Giovanni Avanzi, parroco di Vidalenzo e suo amico sin dalla giovinezza. Ma non dobbiamo dimenticare quanto fece per le attività di Don Carlo Uttini, suo cugino da parte della mamma. Sacerdote e pedagogista, Don Carlo e le nipoti Guglielmina e Giulia, dal 1867 aprirono nella provincia di Piacenza numerosi Giardini dell’Infanzia, gli asili. Per quasi quarant’anni Verdi finanziò tutte le loro nuove attività educative e con il testamento dispose che parte del suo patrimonio fosse distribuito in favore degli asili di Piacenza, Cortemaggiore, Villanova e Genova.

Non fermiamoci al solo valore economico di queste beneficenze ma consideriamo anche le modalità con cui le realizzò: riservata, in forma anonima tramite persone di fiducia. Questo per non mettere a disagio i beneficiati, per non obbligarli a ringraziarlo in occasione di un qualsiasi incontro. Due soli esempi. Il primo riguarda l’Ospedale di Villanova. Il 15 aprile 1885 l’amico psichiatra Cesare Vigna, cui dedicò La Traviata, scrisse a Verdi: «Quando avrà luogo l’apertura del tuo ospedale? Nella mia qualità di direttore sanitario sentirei quasi un obbligo d’intervenire alla solenne inaugurazione». L’inaugurazione avvenne il 5 novembre 1888, tre anni dopo, e non fu per nulla solenne. Giuseppina Strepponi così la descrisse a Don Avanzi: «L’ospedale fu aperto lunedì senza apparato, semplicemente, come si dovrebbe fare tutte le opere di carità, come questa di Verdi, grande, umanitaria, santissima!». Cerimonia fedele al pensiero di Verdi: «L’inaugurazione, come la bramo io, è la seguente. Consisterà nell’ammissione dei primi dodici infermi. E basta. Non si convengono inutili cerimonie per un luogo di dolore». E a Ricordi, Verdi diede un ordine preciso: «la consegna è di tacere», ordine che non fu rispettato perché Ricordi, l’11 novembre, fece pubblicare un articolo sulla Gazzetta musicale. Il secondo esempio è relativo alla Casa che fece costruire a Milano per accogliervi i vecchi artisti non favoriti dalla fortuna. Acquistato il terreno nel 1889, l’anno successivo all’apertura dell’Ospedale di Villanova, la Casa fu terminata dieci anni dopo nel 1899, e Verdi per non apparire vanaglorioso chiese che fosse aperta dopo la sua morte, dopo la sua sepoltura insieme a Giuseppina, là, immerso nella sua opera più bella, al servizio dei suoi ospiti. Tutte queste situazioni mi richiamano alla mente l’Ave Maria inserita nell’Otello: «Maria, prega per chi adorando te si prostra, prega pel peccatore, per l’innocente e pel debole oppresso e pel possente, misero anch’esso, tua pietà dimostra».

Quando ai miei studenti introduco il coro verdiano più noto, il cosiddetto Va pensiero, mi piace far prima ascoltare loro il famoso canto ebraico Gam Gam Gam. Il carattere ritmato e gioioso trasmette la serenità della persona che si affida a Dio. Perché, come recita il testo tratto dal salmo 23, «Anche se andassi per le valli più buie di nulla avrei paura perché tu sei al mio fianco Il tuo bastone mi dà sicurezza». Anche il Va pensiero, ispirato al salmo 137, trasmette agli ascoltatori la serenità del credente. Con questo coro gli ebrei, schiavi in terra straniera, ricordano Gerusalemme distrutta e sgridano la cetra che non suona, che non li aiuta nel canto, sicuri che Dio li ascolterà e trasformerà il loro «patire in virtù». Verdi, a quelle parole, alla serenità ed eleganza della melodia, nella parte acuta dell’orchestra aggiunge una decorazione, un fregio, che dona ulteriore serenità e bellezza. Vi invito a indirizzare il vostro pensiero anche alle parole di Arrigo Boito, suo librettista e amico fidato che gli rimase vicino sino alla morte: «Egli ha dato l’esempio della fede cristiana per la commovente bellezza delle sue opere religiose, per l’osservanza dei riti, [e dobbiamo ricordare] ([…] la sua bella testa abbassata nella cappella di Sant’Agata). Sapeva che la fede è il sostegno dei cuori».

Dino Rizzo
Pubblicista di musicologia verdiana (University of Chicago - Ricordi, Cambridge University, Treccani), docente di musica.

La famiglia

La difficoltà nei rapporti con il padre e in particolare il prorompere di Antonio Barezzi nella vita di Giuseppe Verdi, lasciano nell'ombra i genitori. Scopriamo di più di Carlo e Luigia, del nonno Giuseppe e degli eredi.
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l genitori, Carlo Verdi e Luigia Uttini

Carlo proveniva da una famiglia di agricoltori piacentini (stesse origini della moglie Luigia Uttini, filatrice) trasferitisi a Roncole di Busseto. Contrariamente a quanto sostenuto in molte biografie, i genitori di Verdi non vissero in condizione economica di indigenza. Il padre, Carlo Verdi non è analfabeta, firma il certificato di nascita di suo figlio e nel 1825 viene eletto tesoriere della Fabbrica della Chiesa di San Michele a Roncole, carica che lascerà solo nel 1840. I genitori e i nonni di Verdi, dediti al commercio, vantano una posizione economica di relativo agio rispetto ai contadini.
La difficoltà nei rapporti con il padre e in particolare il prorompere di Antonio Barezzi nella vita di Giuseppe Verdi lasciano nell'ombra i genitori. Il padre Carlo sostiene il compositore nei primi anni di carriera, ma dopo i successi e la notorietà del figlio, pretende di amministrarne il cospicuo capitale. Questo porta a una brusca rottura dei rapporti. Nel 1851 lo strappo è definitivo: il padre accumula debiti con troppa frequenza facendosi forte dei guadagni del figlio. Verdi si rivolge a un notaio di fiducia, l’amico Ercolano Balestra, garantisce un sostanzioso vitalizio a patto che i genitori lascino la casa colonica di Sant'Agata dove egli si trasferisce insieme a Giuseppina Strepponi. Verdi scrive: “Io intendo di essere diviso da mio padre e di casa e di affari. Infine non posso che ripetere quanto le dissi ieri a voce: presso il mondo Carlo Verdi deve essere una cosa, e Giuseppe Verdi un’altra.” Carlo e Luigia Verdi lasciano Sant'Agata per Vidalenzo.

Il nonno, Giuseppe
Il nonno di Verdi è personaggio tanto ineterssante per carattere deciso e coraggioso, per intraprendenza non comune e per vita piena di vicende anche avventurose. […] Era nato nel 1784 a Sant'agata, località che i Verdi avevano abitato in continuazione esercitando per lo più l'agricoltura. Giuseppe già proprietario di un piccolo podere, era divenuto oste dell'osteria dell'Ongina su quel porto del Po. […] Pochi anni dopo, nel 1781, ecco il nonno Giuseppe abbandonare l'osteria dell'Ongina nel Polesine e subaffittare l'osteria delle Roncole, proprietà del marchese Pallavicino, e trasferirvisi con la moglie Francesca Bianchi, nata a Villanova d'Arda, e il figlio Carlo. Alle Roncole, il nonno del Maestro, aveva inoltre ottenuto con la raccomandazione del prevosto la conduzione in affitto di un bel podere vescovile, posto di fronte alla chiesa parrocchiale di San Michele, podere a servizio del mantenimento dell'Oratorio di Madonna dei Prati, e contemporaneamente si era messo a fare il mercante dei grani. Scrivono Aimi e Leandri: “Dal 1791 al 1830, per circa 40 anni, il centro di Roncole fu quello della famiglia Verdi: davanti alla canonica, sulla piazza, la famiglia gestiva l'osteria e la privativa; nella parte opposta, verso sera, sulla strada che porta a Bassa Mai e a Castione Marchesi, di fronte alla chiesa, essa conduceva il podere del vescovo di Borgo San Donnino. Il periodo roncolese del nonno del Maestro fu meraviglioso. La famiglia aumentava unita e invidiata. L'osteria era frequentata. Le figlie di Verdi, belle e chiassose, erano contese da tanti corteggiatori. Gli affari prosperavano.” I Verdi erano così ben inseriti e rispettati che ottennero a loro nome un banco nella chiesa.
(Da "Alle Roncole con Verdi fanciullo" a cura di Corrado Mingardi / Grafiche Step – Parma)

Angiolo Carrara
Notaio e per qualche tempo sindaco di Busseto, amico, amministratore ed esecutore testamentario di Verdi. Nel 1859 firma, insieme a Verdi, la sottoscrizione in favore dei caduti bussetani nella Seconda guerra di Indipendenza.

Alberto Carrara (1854-1925)
Figlio del bussetano Angiolo, notaio di Verdi, e di Caterina Demaldè, Alberto l’11 ottobre 1878 sposò Maria Filomena Verdi, cugina di Giuseppe, che il Maestro adottò nel 1869. Il matrimonio venne fortemente caldeggiato da Verdi, il quale così si espresse in una lettera a Giuseppe Piroli del 20 agosto 1876: «Io ne sono contentissimo e la Peppina (Giuseppina Strapponi) ancora più di me.

Filomena Maria Cristina Verdi
Cugina in secondo grado di Verdi. Nel 1862, morto il padre in un incidente, la bambina viene mandata a vivere a Palazzo Cavalli di Busseto con Carlo il padre di Verdi. Nel 1869 Verdi la iscrive al collegio della provvidenza di Torino e alla fine di quell'anno i coniugi Verdi adottano la “povera paesanella" cambiandole il nome in Maria. Sposerà Alberto Carrara nel 1878 e verrà indicata da Giuseppe Verdi come erede universale del proprio patrimonio.

Antonio Barezzi

“A chi fu mio secondo padre, ad Antonio Barezzi. A lui devo tutto, ma a lui solo! Nissun’altro ha mai fatto per me il sagrifizio di un centesimo” scrive Giuseppe Verdi a Giulio Ricordi.
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Antonio Barezzi
(Busseto, Parma, 23 dicembre 1787 – ivi, 21 luglio 1867)
Commerciante di vino e spezie e distillatore di liquori con la casa e il negozio nella piazza principale di Busseto di fronte alla Rocca. Entra nell’orbita della famiglia Verdi come rifornitore della posteria di Carlo, padre di Giuseppe. Barezzi si dilettava nel suonare vari strumenti (flauto, clarinetto, clarinetto piccolo) ma soprattutto fu fondatore, nel 1816, della Società Filarmonica di Busseto, i cui concerti si tenevano in un salone all’interno della propria abitazione. La direzione artistica della Società Filarmonica venne affidata a Ferdinando Provesi, il quale, maestro di contrappunto e composizione di Verdi, segnalò a Barezzi l’allievo. Nel salone di Casa Barezzi Verdi si esibì per la prima volta in pubblico. L’ammirazione e la fiducia di Barezzi nei confronti di Verdi arrivarono a tal punto che, il 14 marzo del 1831, il giovane figlio del negoziante delle Roncole si trasferì nella dimora signorile dei Barezzi dirimpetto alla Rocca di Busseto, cominciando a impartire lezioni di pianoforte alla figlia del mecenate, Margherita, futura moglie del compositore. Antonio Barezzi permise a Verdi – nonostante l’esito negativo dell’esame di ammissione al conservatorio di Milano nel giugno del 1832 – di continuare a studiare a Milano sotto la guida del maestro Vincenzo Lavigna, facendo fronte a gran parte delle spese che il suo pupillo dovette sostenere nel corso del soggiorno. Il 5 marzo 1836, grazie all’intervento di Barezzi, Verdi ricevette l’incarico di Maestro di musica del Comune di Busseto. Cattedra, quest’ultima, che Verdi decise di lasciare tre anni più tardi, nel 1839, quando con la moglie Margherita e il figlio Icilio Romano si trasferì nuovamente a Milano, sempre supportato economicamente da Barezzi. Dopo la morte di Margherita (18 giugno 1840) i rapporti tra Barezzi e Verdi rimasero comunque improntati ad una sincera cordialità, tanto da spingere il commerciante a seguire il genero a Parigi, dove conobbe Giuseppina Strepponi, alle prime del Macbeth (Firenze, 12 marzo 1847) e della Luisa Miller (Napoli, 8 dicembre 1849). La riconoscenza di Verdi verso il proprio benefattore trovò espressione in numerose circostanze: tra queste risalta la dedica a Barezzi apposta dal compositore sullo spartito dello stesso Macbeth; così come impressiona l’accorato tributo al compianto suocero contenuto in una lettera al vetriolo che Verdi spedì a Giulio Ricordi in data 28 gennaio 1876 («a Chi fù mio secondo padre, ad Antonio Barezzi. A Lui devo tutto, ma a LUI solo! Nissun’altro ha mai fatto per me il sagrifizio di un centesimo»).

In una nota lettera a Clarina Maffei, Verdi scrive: “Vi ringrazio, mia sempre buonissima Clarina, della vostra affettuosa lettera. Oh questa perdita mi sarà estremamente dolorosa [..] Povero vecchio che m'ha voluto bene!! E povero me che per poco ancora poi nol vedrò più!!! Voi sapete che a Lui devo tutto, tutto, tutto. Ed a Lui solo, non ad altri come l'han voluto far credere. Mi par di vederlo ancora [..] quando mio padre mi dichiarò che non avrebbe potuto mantenermi nell'Università a Parma e mi decidessi di ritornare nel villagio natio. Questo buon vecchio saputo questo mi disse [..] “Tu sei nato per qualcosa di meglio, non per vendere Sale e lavorare la terra. Domanda a codesto Monte di Pietà la magra pensione di 25 franchi al mese per quattro anni, e io farò il resto; andrai al Conservatorio di Milano e, quando potrai mi restituirai il denaro speso per te”. [..]

Sulla tomba nel cimitero di Sant'Anna a Busseto si legge: ad Antonio Barezzi universalmente lodato di onestà e di filantropia flautista e greggio insegnato ore e promotore in patria dell'arte scenica il quale al Verdi ancora giovine schiuse la via della gloria e lo ebbe poi come genero costantemente amoroso e grato fra le cui braccia spirò ai 21 luglio 1867 d’anni 79.

L'impegno politico

Lo slancio risorgimentale di Verdi nella vita come nell’arte, l’aspirazione ad una Unità capace di costruire un'Italia solidale e moderna, gli incontri con Mazzini e Cavour, l’elezione a deputato, la delusione, sono ancora oggi elementi di riflessione.
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Nel 1847 Verdi era ormai sufficientemente affermato da ricevere le prime scritture fuori d'Italia, a Londra, dove incontrò Mazzini e a Parigi dove, avendo ormai iniziato ufficialmente la sua convivenza con Giuseppina Strepponi, finì per trattenersi molto più del previsto. Avvenne così che la grande rivoluzione europea del 1848 lo cogliesse a Parigi, da un lato quindi al centro della temperie rivoluzionaria, dall'altro lontano dagli avvenimenti italiani. Verdi però prese pubblicamente posizione a favore della guerra d'indipendenza. L'8 agosto, infatti, sottoscrisse insieme ad altri illustri italiani presenti a Parigi (ignari del fatto che già nella sera del 6 Carlo Alberto e il suo esercito avevano abbandonato Milano alle truppe austriache) un appello inviato dal Governo provvisorio della Lombardia al Governo repubblicano francese, affinché intervenisse in vista dell'imminente assalto degli austriaci alla città di Milano. Peraltro, Verdi non riponeva molte speranze in un intervento straniero; ne fa fede la lucida analisi d'impronta mazziniana, formulata nella lettera che inviò a Clara Maffei dopo l'armistizio di Salasco: "Vuol sapere l'opinione di Francia sulle cose d'Italia? Buon Dio, cosa mi cerca mai! Chi non è contrario è indifferente: aggiungo di più che l'idea dell'Unità Italiana spaventa questi uomini piccoli, nulli che sono al potere. La Francia non interverrà colle armi (…) L'intervenzione diplomatica franco-inglese non può essere che iniqua, vergognosa per la Francia, e ruinosa per noi. Difatti tenderebbe a fare che l'Austria abbandonasse la Lombardia e si contentasse del Veneto (…) per noi resterebbe un'onta in più, la devastazione della Lombardia, ed un principe in più in Italia (...). Sa in chi spero? Nell'Austria: nei sconvolgimenti dell'Austria. Qualcosa di serio deve pur nascere là, e se noi sapremo cogliere il momento, e fare la guerra che si doveva fare, la guerra d'insurrezione, l'Italia può ancora esser libera. Ma Iddio ci salvi d'aver confidenza nei nostri re e nelle nazioni straniere".

Come è noto, le cannonate di Windisch-Graetz a Vienna e l'intervento dell'esercito russo a Budapest posero fine agli "sconvolgimenti dell'Austria" e, così come quella règia, anche la guerra di popolo andò incontro alla sconfitta a Venezia e a Roma, dove Verdi ebbe una conferma anche troppo cruda di quanto fosse fondato lo scarso assegnamento che egli aveva fatto l'anno prima sulla Francia; nel luglio del '49, ancora a Parigi, scrisse allo scultore Vincenzo Luccardi: "Non parliamo di Roma! A che gioverebbe? La forza regge ancora il mondo! La giustizia? A che serve contro le baionette? (...). Dimmi infine tutto quello che i nostri novelli padroni ti permettono di dire”. Forse anche il disgusto per la politica francese accelerò il rientro di Verdi in patria. In due anni l'atmosfera degli Stati italiani si era radicalmente modificata. Se infatti la Sardegna aveva conservato il regime statutario, negli altri Stati italiani era in atto una dura reazione. Nel Lombardo-Veneto, in particolare, il Governatore generale Radetzky diede vita a un regime di vera e propria occupazione militare (lo stato d'assedio fu abolito solo nel maggio del 1854) la cui durezza destò, anche a Vienna, preoccupazioni su cui peraltro prevalse la gratitudine verso il vecchissimo feldmaresciallo; vi furono esecuzioni capitali per imputazioni anche minime come il possesso di manifestini, molti fra i cittadini più in vista furono incarcerati o andarono in esilio, le classi medie soffrirono l'imposizione di pesanti indennità di riparazione. Per Verdi, protetto dalla sua fama europea, il peso della controrivoluzione si manifestò sotto una forma affatto particolare: la lotta, fatta di defatiganti trattative e continui compromessi, contro la censura che dopo la grande paura rivoluzionaria era divenuta assillante e sempre pronta a intervenire laddove si manifestasse un riferimento patriottico, una mancanza di rispetto verso qualsivoglia corona regale, un affronto ai buoni costumi. Fu così che La battaglia di Legnano, già rappresentata con questo titolo a Roma alla vigilia della Repubblica, continuò a vivere nei teatri italiani degli anni cinquanta in un bizzarro travestimento olandese, come Assedio di Arnhem; che Gustavo III fu trascinato dalla Svezia alla Boston coloniale e trasformato nel Ballo in maschera; che La Traviata venne retrodatata al '700,per sfumare i vizi nelle brume del passato e far brillare la riconquistata purezza dei costumi contemporanei; soprattutto, con mirabile esempio di eterogenesi dei fini, la censura si accanì con felice ostinazione sul libretto della Maledizione, trasformandolo nel Rigoletto e, tra l'altro, spostò l'azione del Roi s'amuse di Hugo dalla corte parigina di Francesco I alla Mantova dei Gonzaga, così creando l'ambientazione ideale per quell'atmosfera di solare sensualità italiana che nell'opera fa da contrappeso alla tragica cupezza della vicenda.

Dopo la riapertura del salotto della contessa Maffei nel 1850, l'ambiente politico-culturale nel quale si muoveva Verdi avviò una riflessione sulla possibilità di conferire una prospettiva nuova e più efficace al movimento nazionale. Ancora una volta fu Mazzini che, con la creazione del Partito d'Azione e l'indizione del Prestito nazionale, tentò di far uscire il movimento patriottico dalla dimensione cospirativa. I ripetuti insuccessi dei suoi tentativi insurrezionali determinarono però il rapido esaurimento di questa prospettiva, a vantaggio di quella che si stava delineando grazie alla diplomazia europea di Cavour, soprattutto dopo la guerra di Crimea e la fondazione della Società nazionale italiana. Si trattava di convincersi che la strada giusta fosse quella della "confidenza" in un re italiano e in una Nazione straniera, contro la quale Verdi si era espresso con tanta amara lucidità nel '48. Ai più questa scelta, in particolare dopo lo scoppio della seconda guerra d'indipendenza e l'insurrezione della Toscana, dei Ducati e delle Legazioni pontificie, appariva l'unica praticabile, ma c'era chi la viveva con minor entusiasmo degli altri. Fra questi ultimi vi era anche Verdi, che a luglio così commentava il trattato di Villafranca con Clara Maffei: "E dov'è dunque la tanto sospirata e promessa indipendenza d'Italia?(..). O che la Venezia non è Italia? (...). Quanta povera gioventù delusa! E Garibaldi che ha perfino fatto il sacrificio delle sue antiche e costanti opinioni in favore d'un Re senza ottenere lo scopo desiderato (...). Scrivo sotto l'impressione del più alto dispetto e non so cosa mi dica. E' dunque ben vero che noi non avremo mai nulla a sperare dallo straniero, di qualunque nazione sia!". Il dispetto però non gli impedì di dare il suo contributo per contrastare l'attuazione delle clausole del Trattato che prevedevano il ritorno dei vecchi sovrani nell'Italia centrale. Pertanto, dopo aver avuto una parte di primo piano nell'organizzare l'armamento degli insorti parmigiani,cui contribuì anche personalmente con l'acquisto di cento moderni fucili, accettò l'elezione a rappresentante di Busseto all'Assemblea delle Province parmensi, proclamando che il programma al quale egli si atteneva era l'annessione al Piemonte, nella quale risiedeva "la futura grandezza e rigenerazione della patria comune”. Presiedette quindi la delegazione inviata a Torino a metà settembre per chiedere l'annessione agli Stati Sardi, e il ministro plenipotenziario britannico, Lord Hudson, organizzò un suo incontro a Leri col dimissionario Cavour. Si trattò di un vero e proprio colpo di fulmine: se il Maestro aveva certo già apprezzato la decisione di Cavour di non seguire il Re nell'adesione alla pace francese, ora la personalità del Conte lo soggiogò letteralmente, e le parole di ringraziamento che gli scrisse poi con accenti per lui inusuali, furono il prologo a un rapporto di fedeltà e fiducia che sarebbe continuato senza incrinature per i due anni che ancora restavano da vivere allo statista piemontese: "Non iscorderò mai quel suo Leri, dov'io ebbi l'onore di stringere la mano al grande uomo di Stato, al sommo cittadino, a colui che ogni italiano dovrà chiamare padre della patria".

Il ruolo di Verdi nel moto unitario parmigiano completava la sua immagine di musicista nazionale per antonomasia e ne faceva quindi quello che oggi chiameremmo un perfetto testimonial del progetto politico cavouriano. Il Conte chiese perciò a Verdi di candidarsi nel collegio di Borgo San Donnino (l'attuale Fidenza) per le elezioni dell'VIII Parlamento sardo, che avrebbe proclamato Vittorio Emanuele Re d'Italia diventando il primo Parlamento del nuovo Stato. La proposta turbò Il Maestro, consapevole dell'enorme differenza che correva tra una rappresentanza rivoluzionaria come l'Assemblea delle Province parmensi - il cui unico scopo era impedire il ritorno dei Borbone e preparare l'annessione agli Stati sardi - e una vera assemblea legislativa e politica; ma nel gennaio del 1861, recatosi a Torino per rifiutare la candidatura, finì per cedere. Quattro anni dopo, Verdi rievocò la vicenda in una lettera a Francesco Maria Piave: "Mi presentai a Lui (...) a sei ore del mattino, con 12 o 14 gradi di freddo. Avevo preparato il mio spice che mi pareva un capo d'opera, e glielo spiattellai là tutto disteso. Egli n'ascoltava attentamente e quando gli descrissi la mia inattitudine a essere deputato (...) cominciò a ribattere una per una tutte le mie ragioni (...). Io soggiunsi: ebbene signor Conte accetto, ma alla condizione che dopo qualche mese darò la mia dimissione. Sia, rispose, ma me ne farete prima cenno. Fui deputato e nei primi tempi frequentai la camera. Venne la seduta solenne in cui si proclamò Roma, capitale d'Italia. Dato il mio voto, mi avvicinai al Conte e gli dissi: ora mi pare tempo di dare un addio a questi banchi. No, soggiunse, aspettate finché andremo a Roma.- Ci andremo?- Sì.- Quando?- Oh, quando, quando!- Intanto io me ne vado in campagna.- Addio, state bene, addio. - Fur l'ultime sue parole per me. Poche settimane dopo moriva!”. La candidatura di Verdi non piacque al locale esponente del partito cavouriano, l'avvocato Giovanni Minghelli Vaini, personaggio eminente di San Secondo parmense, che tentò di indurlo a ritirarla, o a presentarla in altro collegio. Verdi, pur protestando a Minghelli Vaini la sua stima, gli scrisse che non poteva venir meno all'impegno preso con Cavour, né poteva presentarsi in un collegio diverso da quello nel quale ricadeva Busseto, poiché una simile scelta "perdonami, è contro a' miei principi. Così facendo, mi presenterei per essere eletto ed io ripeto per la centesima volta: Sono costretto ad accettare, ma non mi presento, né mi offro a nessun collegio. Se tu riesci a farmi avere la minorità dei voti, a farti nominare e a liberarmi da questo impegno, io non troverò parole sufficienti per ringraziarti di sì segnalato servigio. Farai un bene alla camera, un piacere a te, ed uno grandissimo a G. VERDI". E in realtà Verdi non fece nessuna campagna elettorale, a differenza di Minghelli Vaini; troppo differenti erano tuttavia il prestigio e la popolarità dei due candidati cavouriani e Verdi, entrato in ballottaggio con l'avvocato sansecondino nelle elezioni del 27 gennaio, risultò eletto il 3 febbraio con 339 voti contro 206 (Minghelli Vaini fu comunque eletto nel collegio di Bettola).

Nella citata lettera a Piave, Verdi dava conto dei suoi tentativi di dare le dimissioni e delle circostanze che l'avevano impedito, concludendo: "Ora io sono ancora deputato contro ogni mio desiderio ed ogni mio gusto,senza avervi nessuna attitudine, nessun talento e mancante completamente di quella pazienza tanto necessaria in quel recinto. Ecco tutto. Ripeto che volendo o dovendo fare la mia biografia come membro del parlamento non vi sarebbe altro che imprimere in mezzo a un bel foglio di carta: I 450 non son veramente che 449, perché Verdi come deputato non esiste ". In realtà il Maestro, che certamente aveva difficoltà ad adattarsi alle mediazioni proprie dell'attività legislativa, pure ebbe piena consapevolezza del suo ruolo e delle sue responsabilità pubbliche, nonché del significato anche simbolico delle sue scelte politiche. Si pose infatti in primo luogo il problema della sua corretta collocazione nell'emiciclo, decidendo alla fine di sedere, accanto a Quintino Sella, sui banchi del Centro-Sinistra, con ciò ponendosi, come disse l'amico e compaesano, nonché deputato parmigiano, Giuseppe Piroli, nel partito di coloro che appoggiavano il Ministero, ma non per sistema. Nel primo anno di legislatura fu estremamente diligente, pur senza mai prendere la parola in Assemblea; soprattutto si impegnò, su richiesta del Conte di Cavour, nel redigere un progetto di riordinamento dell'attività e degli studi musicali. Il radicalismo della sua proposta però ne determinò la tacita sconfessione da parte del Governo; Verdi immaginava infatti un impegno diretto dello Stato nella promozione della cultura musicale, attraverso l'istituzione di tre Teatri lirici di Stato collegati a Conservatori e scuole di canto completamente gratuiti. Quest'idea muoveva dalla consapevolezza della centralità della trasmissione della cultura musicale ai fini della costruzione di un'identità nazionale condivisa e diffusa, e non certo da un atteggiamento superficiale o naif nei confronti dell'uso delle risorse pubbliche; al contrario, Verdi era perfettamente consapevole che il Regno poteva dedicare al finanziamento delle politiche culturali ben poche risorse, da riservare perciò a progetti di ampio respiro, e condannò come manifestazione di un costoso e futile provincialismo l'attivismo con cui le classi dirigenti locali post-unitarie si diedero a celebrare sé stesse attraverso l'erezione di monumenti e opere pubbliche che, nei contesti in cui venivano realizzati, apparivano di dubbia utilità. Si pensi alla sua lunga lotta contro il progetto di edificare un teatro lirico a lui dedicato a Busseto. Estraneo alla pretesa wagneriana di attribuire un valore metamusicale alla sua opera, Verdi non concepiva l'idea di un festival autocelebrativo in stile Bayreuth, e vedeva in quel progetto un'onerosa cattedrale nel deserto, in presenza a Parma di un grande teatro lirico come il Regio; così, fece appello al prestigio della sua carica per scoraggiarne l'attuazione, scrivendo al Consiglio municipale di Busseto: "Adempio un dovere come Deputato, (...) L'Italia corre in gravi pericoli (...) per ristrettezze pecuniarie. Non voglia il cielo che l'istoria abbia un giorno a registrare che l'Italia fu disfatta per mancanza di denaro (...) in un tempo in cui s'abbelliscono città, s'innalzano dappertutto monumenti e teatri. Busseto sta costruendo un teatro, né si creda che io voglia ora osteggiare quest'opera, sia vana, e cosa inutile come io credo. Questo non è il momento di discussione ma di pensare a cose più alte e importanti, ed è per questo che mi rivolgo a questo municipio onde esortarlo a sospendere quel lavoro, ed imitando il nobile esempio di Brescia ed altre molte città, impiegare quel denaro a ristorare le finanze patrie”.

L'affievolimento dell'impegno parlamentare di Verdi coincise con l'aumento dei suoi impegni internazionali. Negli anni sessanta, in effetti, Verdi fu una sorta di icona culturale del nuovo Stato nazionale, e alternò soggiorni italiani trascorsi in prevalenza a Sant'Agata a prolungati tour all'estero, dove debuttarono tutte le opere composte in questo periodo; peraltro, Verdi non si lasciò mai tentare dal ruolo dell'artista di successo "apolide", indifferente alle vicende che si svolgono attorno a lui e a qualunque conflitto che non abbia a oggetto l'arte per l'arte. Uomo senza partito ma non certo senza convinzioni, il Maestro restò sempre fedele, a differenza di tanti ex repubblicani della sua generazione, a una prospettiva di liberalismo progressista e di patriottismo umanitario, e nel corso degli anni '60 guardò con preoccupazione alla deriva nazionalista e imperialista che si stava cominciando a manifestare in Europa, e che si rivelò drammaticamente nella guerra franco-prussiana. Alla fine di settembre del 1870, scriveva a Clara Maffei parole in cui il disgusto per il nazionalismo militarista della Prussia e il timore per gli entusiasmi che esso suscitava anche in Italia, confluiscono con l'afflizione per la sorte di Parigi, capitale della libertà e della cultura europea, e con il senso di vergogna per l'incapacità dell'Italia di onorare un debito di riconoscenza che, pur fra tante delusioni e incomprensioni, egli provava nei confronti della Francia: "la presunzione dei francesi era, ed è, malgrado tutte le loro miserie, insopportabile, ma infine la Francia ha dato la libertà e la civiltà al mondo moderno. E s'essa cade, non ci illudiamo, cadranno tutte le nostre libertà, e la nostra civiltà. Che i nostri letterati e i nostri politici vantino pure il sapere, le scienze e (Dio glielo perdoni) le arti di questi vincitori; ma se guardassero un po' più in dentro, vedrebbero che sono (...) d'uno smisurato orgoglio, duri, intolleranti, sprezzatori di tutto ciò che non è germanico (...). L'antico Attila (...) si arrestò avanti la maestà della capitale del mondo antico: ma questi sta per bombardare la capitale del mondo moderno (...). Forse perché non esista mai più, così bella, una capitale che essi non arriveranno mai a farne una eguale. Povera Parigi! che ho vista così allegra, così bella, così splendida nel passato aprile! E poi?... Io avrei amato una politica più generosa, e che si pagasse un debito di riconoscenza (...); avrei preferito segnare una pace vinti coi Francesi, a quest'inerzia che ci farà sprezzare un giorno. La guerra europea non la eviteremo, e saremo divorati. Non sarà domani, ma sarà. Un pretesto è subito trovato". Il dolore non veniva certo diminuito dall'annessione di Roma, che Verdi commenta con parole che tradiscono amarezza e perplessità: "L'affare di Roma, è un gran fatto, ma mi lascia freddo (...) perché non posso conciliare Parlamento e Collegio cardinalizio, libertà di stampa e Inquisizione, Codice civile e Sillabo (...). Che domani ci venga un Papa destro, astuto, un vero furbo, come Roma ne ha avuti tanti, e ci ruinerà. Papa e Re d'Italia non posso vederli insieme nemmeno in questa lettera."

“Dalla mia finestra vedo tutti i giorni un bastimento e qualche volta due carichi almeno di mille emigranti ciascuno! Miseria e fame! Vedo nelle campagne proprietarj di qualche anno fà [sic], ridotti ora a Contadini, Giornalieri, od emigranti (miseria e fame). I ricchi, di cui la fortuna diminuisce d’anno in anno, non possono più spendere come prima, e quindi miseria e fame!”. È il 10 febbraio 1889, Giuseppe Verdi e sua moglie Giuseppina Strepponi stanno, come abitudine, passando l’inverno a Genova e dal loro palazzo affacciato sul porto vedono partire gli emigranti italiani. Due giorni prima, a Roma, alcune centinaia di operai edili rimasti disoccupati avevano manifestato per le strade del centro e con vanghe e badili avevano sfasciato vetrine, divelto lampioni, eretto barricate.  

Come sono lontani gli entusiasmi risorgimentali: nel 1848-49 Verdi voleva sentir parlare solo di «musica del cannone», scriveva che «la carta da musica è buona per avvolgere pallottole» e fremeva al pensiero di una patria «una, libera, indipendente». Quarant’anni più tardi, prevale il disincanto sulle sorti della nazione. “Cosa vuol dire che quando l’Italia era divisa in tanti piccoli Stati, tutti quasi avevano le Finanze in ottimo stato, ed ora che siamo uniti siamo rovinati. Ma tutte le ricchezze d’una volta se l’è mangiate il Diavolo? Voi mi risponderete: l’armata e la marina... E mandateli a casa tutti. Cosa ne faremo? Chi si batterà con noi? Eppoi: quando si hanno risultati come quelli di Custozza [sic] e Lissa è meglio non aver nulla. – Vi giuro che tutto ciò mi rattrista e m’annienta ed i sarcasmi degli stranieri gli meritiamo” (18 giugno 1867, quando ancora bruciano le sconfitte della Terza Guerra d’Indipendenza). 

Un carteggio, appena pubblicato, tra Giuseppe Verdi e Giuseppe Piroli, nato anch’egli a Busseto, avvocato, docente universitario, deputato già nell’ultima legislatura Subalpina nel 1860, poi nel neonato Regno d’Italia dal 1861 al 1876, proclamato senatore nel 1884, come dieci anni prima lo era stato Verdi, aiuta a comporre un sempre più attendibile ritratto del pensiero politico e civile del Maestro. Un corpus di 721 tra lettere e biglietti, curato scrupolosamente da Giuseppe Martini e compreso in un arco di tempo esteso dal 1859 al 1890, anno della scomparsa dell’amico, al quale Verdi sopravvive undici anni. Quasi interamente inediti i documenti di Piroli;

Liberale, «moderato e indipendente», Piroli è celebre soprattutto per il suo intervento in aula nel 1864 come relatore della commissione di inchiesta sulla Società delle Ferrovie Meridionali, che scoperchia i primi intrighi fra finanza e politica della nuova Italia. Quando nel carteggio si parla di musica - Piroli era un ascoltatore appassionato, un devoto ammiratore più che un intenditore - lo si fa soprattutto relativamente al problema del costo degli allestimenti e della tutela del diritto d’autore, battaglia che vide il compositore impegnato in prima persona, fino a essere tra i fondatori di quella che diventerà la Siae.  

Proprio a Piroli, il 12 marzo 1878 Giuseppe Verdi aveva scritto: “La miseria è molta; è cosa grave e può diventare gravissima, compromettendo anche la sicurezza pubblica. Si tratta di fame!!!!!!!!

Nelle grandi città il commercio è diminuito d'assai, i fallimenti frequentissimi e quindi mancanza di lavoro. Nelle piccole nostre città come Parma, Piacenza, Cremona, il proprietario non ha denari, e se ne ha qualche poco, lo tiene ben stretto in tasca perché ha paura dell'avvenire; è così troppo aggravato di contribuzioni, fa i lavori strettamente necessari, non dà lavoro ai giornalieri, il fondo peggiora ed intanto la ricchezza pubblica decresce.

Se Voi vedeste da noi quanti giovani robusti che domandano lavoro! E ciò dovrebbe essere noto al “governo". Se io fossi il "governo" non penserei tanto al partito sia bianco, rosso, nero, penserei al pane da mangiare. Ma non parliamo di politica perché non me ne intendo e perché la detesto...almeno quella che è stata fatta finora. E intanto il "governo" pensa ad aumentare le imposte e a far strade ferrate. È veramente uno scherno. Ma per Dio se avete milioni spendeteli a fare lavori ai fiumi prima che ci allaghino tutti. Poveri noi in che mani siamo, o ambiziosi o ignoranti.

A me poco importa dei bianchi, dei rossi, dei neri, dei destri, dei sinistri, ma vorrei degli uomini capaci e pratici. Del resto se ne accorgeranno loro stessi più tardi, perché le imposte non si potranno più pagare».

 

Da MinervaWeb - Bimestrale della Biblioteca “Giovanni Spadolini", Senato della Repubblica e La Stampa, articolo di Sandro Cappelletto

Verdi a tavola

Se c’è un ambito della vita di Giuseppe Verdi in cui il suo essere “contadino delle Roncole” e contemporaneamente cittadino del mondo sembrano convivere in perfetto equilibrio, ebbene di sicuro è a tavola.
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Se c’è un ambito della vita di Giuseppe Verdi in cui il suo essere “contadino delle Roncole” e contemporaneamente cittadino del mondo sembrano convivere in perfetto equilibrio, ebbene di sicuro è… a tavola. Che il Maestro fosse inflessibile nel modo in cui controllava e gestiva, finanche in prima persona, quanti più aspetti possibile di una esecuzione musicale o del lavoro nelle sue terre, è noto. Non potevamo aspettarci nulla di meno entrando nella sua cucina. “Il Verdi non è goloso, ma raffinato; la sua tavola è veramente amichevole, cioè magnifica e sapiente: la cucina di Sant’Agata meriterebbe l’onore delle scene, tanto è pittoresca nella sua grandezza e varia nel suo aspetto di officina d’alta alchimia pantagruelica.” Così diceva Giuseppe Giacosa nel 1889 da giornalista e ospite privilegiato della villa di Sant’Agata. E aggiungeva “Non c’è pericolo che per indisposizione del cuoco il pranzo abbia a scapitare. A Sant’Agata, oltre il titolare, sono cuochi emeriti il giardiniere, il cocchiere ed una domestica, sicché: uno avulso non deficit alter. E notate che tutto questo apparato è essenzialmente ospitale. Il Verdi non è gran mangiatore, né di difficile contentatura. Sta bene a tavola come tutti gli uomini sani, savi e sobri, ma più di tutto ama veder raggiare intorno a sé, negli ospiti, la giocondità arguta e sincera che accompagna e segue le belle e squisite mangiate: è un uomo disciplinato e come tale crede che ogni funzione della vita debba avere il suo momento di prevalenza: è un artista e come tale considera, e con ragione, il pranzo quale opera d’arte”. Lo stesso Maestro doveva essere un cuoco provetto o almeno, a sentire Giuseppina, molto abile a fare risotti! E dobbiamo crederle se anche Camille Du Locle, direttore dell'Opera Comique di Parigi, richiese alla Strepponi la ricetta del “maître pour le risotto”.

Sotto la diretta dettatura del Maestro ecco la ricetta: "Mettete in una casseruola 2 once di burro fresco, 2 once di midollo di bue o vitello con un poco di cipolla tagliata. Quando questa ha preso il rosso mettete nella casseruola 16 once di riso di Piemonte, fate passare a fuoco ardente (rossoler) mischiandolo spesso con un cucchiaio di legno finché abbia preso un bel color d'oro. Prendete del brodo bollente, fatto con buona carne e mettetene 2 o 3 mescoli (deux ou trois cuilleres à soupe) nel riso. Quando il fuoco l'avrà a poco a poco asciugato rimettete poco brodo e sempre fino a perfetta cottura del riso. Avvertite però, che a metà della cottura del riso (dopo un quarto d'ora) bisognerà mettervi mezzo bicchiere di vino bianco, naturale e dolce: mettete anche una dopo l'altra 3 buone manate di Parmigiano grattato. Quando il riso sia completamente cotto, prendete una presa di zafferano sciolta in un cucchiaio di brodo e gettatela nel risotto, mischiatelo e ritiratelo dal fuoco, versatelo nella zuppiera. Avendo dei tartufi, tagliateli ben fini e spargeteli sul risotto a guisa di formaggio. Altrimenti metteteci formaggio solo, coprite e servite subito”.

Ovviamente Verdi esigeva la massimo qualità delle materie prime come olio, vino, pasta. L'olio preferito, anche rispetto a quello eccellente della Liguria (dove i coniugi Verdi trascorrevano i mesi freddi dell'inverno) era quello delle colline toscane: "due stagnate di olio sopraffino e due di olio più ordinarie per friggere”. Anche il vino come l'olio, in fiaschetti, che il maestro restituiva ben lavati :"favorisca mandarmi due casse di vino Chianti, uno marca rossa e uno marca gialla" chiedeva a Napoleone Melani, albergatore di Montecatini. La pasta, soprattutto i maccheroni, gliela procurava a Napoli l'amico Cesare De Sanctis: "Caro Cesare, siamo da qualche tempo senza vera pasta napoletana, quella che ci danno è spesso falsificata... vogliate farci spedire la seguente: peso e qualità. Pastina minuta assortita kg 10, assortita lunga di mezzana grossezza kg 5, più grossa kg 20, totale kg 80" così scriveva Giuseppina Strepponi nel maggio 1883. Anche quando la coppia, ormai celebre in tutto il mondo della lirica, partì per San Pietroburgo, per la prima di La forza del destino al Teatro Imperiale nel novembre 1861, si era fatta precedere da una notevole spedizione di cibi nostrani per garantire al maestro "buonumore in mezzo a ghiaccio e pellicce”. Così Giuseppina al fattore Corticelli: "potresti fare per noi le provviste dei seguenti generi: riso, maccheroni, formaggi e salumi. Quanto poi al vino, ecco il numero delle bottiglie e la qualità che Verdi desidererebbe: Numero 100 bottiglie piccole di Bordeaux per pasteggiare; numero 20 bottiglie di Bordeaux più fino; numero 20 bottiglie di champagne”. La coppia sarebbe stata accolta con il massimo degli onori in Russia eppure, nel ripartire, già desiderava tornare a Torino a mangiare i “gressini” famosi in tutto il mondo.

Testimone dell’amore per la buona tavola sono naturalmente i diversi carteggi che riportano consigli, suggerimenti, ricette e aneddoti sulla cucina. Il Maestro, esigente con cantanti e musicisti, lo era allo stesso modo in fatto di cuochi. La scelta dei cuochi per Verdi, risultò un vero e proprio grattacapo, testimonianza che ci viene fornita da diverse lettere di corrispondenza. Facile immaginare Verdi far fare al cuoco prove proprio come a un cantante; lo voleva “Abile manipolatore di cibi” e non “cattivo brucia pentole”. Da Genova, Verdi scrive a Giovanni Maloberti, già primo violino e mediatore per conto di Verdi negli acquisti di oggetti di antiquariato, mobili e quadri per le residenze di Sant’Agata e Genova, ma evidentemente uomo di fiducia per molte questioni: “Caro Maloberti, dopo Vienna sono venuto subito qui, né a Venezia. Non parlarmi né di quadri né di mobili. Ti ripeto ancora che non ne voglio e desidererei che tu desistessi dallo scrivermene. Io avrei bisogno di un’altra cosa, più materiale, se vuoi, ma più necessaria. Ho bisogno di un Cuoco; ma lo vorrei onesto, e capace, molto capace (…) Ci sarebbe a Piacenza? Bada che lo voglio buono e non un fanfarone: io voglio assolutamente un cuoco che sia un cuoco! Nel 1878 si rivolge ad un suo ex cameriere, Luigi Bizzi: “sappimi dire se a Reggio si può trovare un buon cuoco. Bada che io non voglio che sappia cucinare bene o male tre o quattro piatti casalinghi […] Spendo quello che vale, ma, ripeto, che sia un cuoco”; in un’altra richiesta spedita a Piacenza, Verdi scrive: “La ringrazio di essersi occupato del cuoco. Ceresini è stato due volte da me; assolutamente rinuncio a lui. Restano dunque gli altri due. Io sarò a Piacenza martedì mattina giorno 17. Mi mandi all’albergo l’uno dopo l’altro questi due cuochi, l’uno alle 11 ore, l’altro alle 12, e vedremo cosa si potrà combinare.

La tavola di Sant'Agata era una tavola ospitale e nelle lettere che Giuseppe e Giuseppina Verdi scrivono, ci sono inviti affettuosi agli amici. Così Giuseppe Verdi scriveva ad Arrigo Boito, suo librettista di Otello e Falstaff: "Caro Boito,...a domenica dunque, a mangiare la zuppa da noi" (Genova 21 febbraio 1889). E Giuseppina con grande semplicità e affetto il 18 gennaio 1861 invita Mauro Corticelli: "spero che verrai a mangiare con noi un buon stufato con la polenta”. Invita anche il sindaco Donnino Corbellini: “Il pavone ch’ella ha avuto la bontà di favorirmi è di già nel numero dei più, e Domenica ad un’ora farà la sua comparsa trionfale. Desidero che sia un’occasione ond’Ella cominci a trovar la strada di S. Agata per venire di tratto in tratto a mangiare una zuppa con noi. L’aspettiamo dunque Domenica, e senza cerimonia alcuna. Ad un’ora si mettono i piedi sotto la tavola.” Il pavone gliel’aveva regalato il Corbellini per abbellire il giardino della Villa.

Fu sotto la direzione della cuoca Ermelinda Berni che la cucina di Villa Sant’Agata diventò il salotto, dove il Maestro amava invitare i suoi amici più cari Arrigo Boito, i Ricordi, il conte Arrivabene, il soprano Teresa Stolz e pochissimi altri.

Eppure l’anima contadina emerge costantemente nei gusti del Maestro. La predilezione per i salumi della sua terra, la spalletta di San Secondo prima su tutti, trattata dal Maestro alla stregua di una sua composizione e degna, perciò, di essere accompagnata da “indicazioni per la messa in scena” rigorosissime: 1) metterla nell'acqua tiepida per circa 12 ore per onde levargli il sale 2) si mette dopo in acqua fredda e si fa bollire a fuoco lento, onde non scoppi per circa 3 ore e mezzo. Per sapere se la cottura è al punto giusto si fora la spalletta con un cure-dents e, se entra facilmente la spalletta è cotta 3) si lascia raffreddare nel proprio brodo e si serve. Guardate soprattutto alla cottura: se dura non è buona, se è troppo cotta diventa asciutta stopposa." (Indicazioni fornite a Teresa Stoltz)

E già ultra ottantenne - ma sempre legato alle tradizioni della sua terra - così scriveva all’amico Piroli: “Voi potrete fare allegramente il Cenone della vigilia, mangiare i Maroben ed il Cappone nel natale ed il Pollino (il tacchino) al 1° d’anno. Non so se noi potremo fare altrettanto perché io ho un po’ di tosse, e la Peppina ha pure la tosse e molto forte. Speriamo che passerà, o almeno diminuirà”. (Maroben è voce cremonese e sta per cappelletti, col ripieno di solo uova, formaggio e sapori, come si fanno appunto nel Bussetano).

Così ce lo racconta Arrigo Boito: “Il Maestro ama i pranzi prolissi e le opere concise. Cucina poderosa dei vecchi tempi. Gli piace anche la moderna quando è all’Hotel ed è finissimo assaporitore. Ma a casa sua… vuole le grandi fette di bue condite con la mostarda di Cremona, i funghi in aceto, la salsa verde. Quasi tutta la sua vita mangia, a desinare, un mezzo ovo sodo dopo l’arrosto. Il suo desinare in casa è composto di antipasti, d’una minestra, per solito sostanziosa (risotto, pasta asciutta, ravioli in brodo), d’un piatto di carne lessa, d’una frittura abbondante, d’un arrosto, d’un dolce formaggio, desert varii. Un’ora dopo il desinar fabbrica lui stesso il caffè.

Un breve cenno al pesce, che Verdi si faceva inviare dal mare o glielo regalava il medico veneziano Cesare Vigna: “Come t’avrà detto il telegrafo abbiamo ricevuto, mangiato e trovato buonissimo il pesce. Solo ne hai mandato una quantità tale che v’era pericolo che ti mandassi a prendere non per mangiare il pesce, ma per curare i disordini prodotti dal troppo mangiare”. E la spedizione di pesce Vigna l’aveva più volte ripetuta.

Un capitolo meritano anche i dolci. La corrispondenza con Opprandino Arrivabene è la fonte più ricca per testimoniare la golosità del Maestro e dell’amico nella incipiente vecchiaia. Sono frammenti che stralciamo da contesti molto più interessanti e importanti, artistici e politici soprattutto. Si comincia nel maggio 1862 con l’invio di grissini a Londra, proprio mentre Verdi è in partenza per Parigi: “Caro Arrivabene, ieri sera ricevei con grata sorpresa i cressini, e te ne ringrazio assai assai. Peccato che non siano arrivati qualche giorno prima che allora avrei avuto il tempo di divorarli tutti. “E torna sull’argomento una volta giunto a Parigi. Nel 1864 sono delle cialde in arrivo a Sant’Agata. Il 13 dicembre è Verdi ad affermare categoricamente, dopo un invio di torroni: “Le mandorle non vanno pelate (scienza torronesca) me n’han detto anche il motivo, ma non me lo ricordo più”. Ma il 23 ecco altri torroni partire per casa Arrivabene direttamente da Cremona.

Sotto Natale può arrivare a Genova un dono: “un canestrino con dentro un pezzo di roba doce” Per ricambiare ecco partire da Genova “una confutazione” costituita da frutta candita: “Caro Arrivabene, nemmeno per sogno ho voluto confutarti. Vivendo tra queste dolcezze non m’era mai accorto che Romanengo sapesse condire tanto squisitamente ogni sorta di frutta. Me lo dissero questa primavera alcuni di Parigi, a cui aveva mandato di quest’opere di Romanengo. Fatta questa scoperta ho voluto fartene parte. Ecco tutto”. Romanengo era pasticcere in Genova dove il Maestro fu visto più volte entrare.

Un maestro anche a tavola.

 

Le donne

Straordinariamente importante fu, nella vita del Maestro Verdi, il ruolo di donne davvero fuori dal comune: amiche e confidenti, sempre sostenitrici del suo immenso genio musicale.                  


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Margherita Barezzi
 (Busseto, Parma, 4 maggio 1814 – Milano, 18 giugno 1840)
Primogenita di Antonio Barezzi, fu la prima moglie di Verdi, conosciuto alla fine del 1830, quando il promettente compositore entrò in casa Barezzi per impartire a Margherita lezioni di pianoforte. Il fidanzamento ufficiale tra i due giovani avvenne il 16 aprile 1836, venti giorni prima dalle nozze, celebrate il 4 maggio presso l’Oratorio della SS. Trinità di Busseto. Dopo un breve viaggio di nozze a Milano, la coppia tornò a Busseto e si stabilì a Palazzo Tedaldi, che Antonio Barezzi aveva acquistato per loro.
L'anno successivo ed a breve distanza, nacquero due figli, Virginia (Busseto, 26 marzo 1837 - Busseto, 12 agosto 1838) e Icilio Romano (Busseto, 11 luglio 1838 - Milano, 22 ottobre 1839), che comunque morirono entrambi all'età di un anno. Nel febbraio del 1839, dopo che Verdi abbandonò il suo lavoro di maestro di musica, Margherita si trasferì a Milano seguendo devotamente il marito nei suoi sforzi iniziali per farsi strada nel mondo della musica. Presenziò al debutto della prima opera di Verdi rappresentata al Teatro alla Scala, l'Oberto, Conte di San Bonifacio, nel novembre del 1839. Morì l'anno successivo all'età di soli 26 anni a causa di una encefalite mentre Verdi stava componendo la sua seconda opera lirica, Un giorno di regno. Fu sepolta nel cimitero milanese del Fopponino di Porta Vercellina, oggi non più esistente: della sepoltura rimane una lapide a ricordo, apposta nel 1990 dalla Fondazione Giuseppe Verdi. Lo sterminato epistolario verdiano non conserva traccia di missive tra i coniugi.

Giuseppina Strepponi (Lodi, 8 settembre 1815 – Sant’Agata, Piacenza, 14 novembre 1897) 
Seconda moglie di Verdi, Giuseppina Strepponi fu un celebre soprano. Figlia del compositore Feliciano, studiò pianoforte e canto al Conservatorio di Milano; nel 1834 iniziò la sua brillante attività di cantante in Italia e a Vienna. Probabilmente Giuseppina Strepponi conobbe Verdi nella primavera del 1839, in occasione del fallito tentativo di mandare in scena Oberto, conte di San Bonifacio a causa dell’indisponibilità del tenore Napoleone Moriani. Una frequentazione più assidua tra il soprano e Verdi si stabilì durante l’allestimento del Nabucco, quando la Strepponi, ormai a fine carriera, vestì i panni di Abigaille. Un consulto medico aveva consigliato alla striscioni un periodo di riposo per non correre per seri pericoli, aveva infatti avuto problemi di salute. Tuttavia il soprano partecipò alle otto rappresentazioni dell'opera ma subito dopo si ritirò temporaneamente dalle scene. La cantante si dimostrò estremamente solerte nel perorare la causa del Bussetano presso l’impresario del Teatro alla Scala, Bartolomeo Merelli (dal quale la Strepponi ebbe almeno uno dei suoi tre figli), convincendo quest’ultimo ad inserire l’Oberto nella stagione d’autunno del 1839, così come si adoperò – su sollecitazione dello stesso Verdi – affinché il Nabucco trovasse una collocazione nel cartellone d’opera del 1842. Il soprano si ritirò dalle scene nel 1846 e, dopo aver delegato a terzi la custodia e l’educazione dei propri figli (pratica, questa, alquanto diffusa fra le cantanti dell’epoca), si trasferì a Parigi, città nella quale aprì una prestigiosa scuola di canto. Verdi la raggiunse nella capitale transalpina nel luglio del 1847 in concomitanza con la messa in scena della Jérusalem e già a partire dall’anno successivo i due trascorsero l’estate insieme nella casa di campagna di Passy. La perfetta padronanza del francese, è una discreta conoscenza dell'inglese, oltre ad una straordinaria capacità nei rapporti umani, le permisero di aprire molte porte a Verdi nel difficile mondo parigino e milanese. Nell’agosto del ’49 la coppia, in scandaloso regime di convivenza more uxorio, si trasferì a Busseto, suscitando lo sdegno degli abitanti della cittadina parmense, ai quali Verdi rispose piccato in una lettera ad Antonio Barezzi del 1852: «In casa mia vive una Signora libera indipendente, amante come me della vita solitaria, con una fortuna che la mette al coperto di ogni bisogno. Né io, né Lei dobbiamo a chicchessia conto delle nostre azioni […]. Bensì io dirò che a Lei, in casa mia, si deve pari anzi maggior rispetto che non si deve a me, e che a nessuno è permesso mancarvi sotto qualsiasi titolo». Le nozze tra Verdi e la Strepponi verranno celebrate in forma strettamente privata il 29 agosto 1859 a Collonges-sous-Salève, borgo di cinquecento anime dell’Alta Savoia, allora Regno di Sardegna. La Strepponi rimase fino alla fine della sua ottuagenaria esistenza compagna e preziosa consigliera di Verdi, gestendo con diplomazia e competenza il ginepraio di rapporti che il Maestro intratteneva con le numerose personalità (impresari, editori, agenti, ecc.) dell’epoca.

Teresa Stoltz (Kostelec nad Labem, Boemia, 5 giugno 1834 – Milano, 23 agosto 1902)
Soprano boemo. Dopo aver cantato nella sua terra d’origine, in Russia e in Turchia, nel 1864 si stabilì in Italia, dove le sue interpretazioni verdiane (Il trovatore e Un ballo in maschera) ottennero straordinari successi di critica e pubblico. Nel ruolo di Elisabetta, diretta da Angelo Mariani (con il quale ebbe una lunga relazione sentimentale), partecipò al Comunale di Bologna alla prima italiana di Don Carlo (27 ottobre 1867); in seguito cantò nella nuova versione de La forza del destino (27 febbraio 1869), occasione in cui, probabilmente, Verdi – impegnato nelle vesti di direttore d’orchestra – ascoltò per la prima volta il soprano boemo. Da quell’incontro si fa risalire l’inizio della liason tra il Maestro e la Stolz, la quale – prossima alle nozze – piantò in asso Mariani e già a partire dal 1871 cominciò a frequentare Sant’Agata. Nel 1870 interpretò Elisabetta nel Don Carlo messo in scena da Verdi al San Carlo di Napoli e due anni più tardi quest’ultimo le affidò la parte di Aida nella prima italiana dell’opera omonima (8 febbraio 1872). La Stolz partecipò poi alla prima esecuzione della Messa da Requiem (22 maggio 1874) di Verdi, composizione con cui lasciò le scene alla Scala il 30 giugno 1879. l rapporti sempre più stretti nel corso degli anni Settanta tra Verdi e la Stolz suscitarono forti pettegolezzi che provocarono l’addolorata reazione della moglie del compositore, Giuseppina Strapponi. La Stolz si allontanerà a malincuore da Verdi favorendo il ristabilirsi della pace coniugale, ma in seguito diventerà fedele amica dei due anziani coniugi per i quali si rivelerà un importante sostegno, trascorrendo con loro lunghissimi periodi a Sant’Agata o alle terme di Tabiano e Montecatini. Dopo la morte della Strapponi a fine 1897, la cantante boema divenne inseparabile compagna di Verdi che seguì nei suoi spostamenti tra Genova, Milano e Sant’Agata. La Stolz terminò i suoi giorni a poco più di un anno di distanza dalla scomparsa del compositore.

Clarina Maffei
Clara nacque - figlia unica - da genitori appartenenti a due famiglie aristocratiche in un palazzo di via Arena, a Bergamo. Il padre, Giovanni Battista Carrara-Spinelli, discendeva dai Carrara di Bergamo, e più nello specifico dai Carrara-Spinelli di Clusone, cui spettò a partire dal 1721 il titolo di conte. All'età di nove anni Clara subì un primo trauma: la madre abbandonò la casa per andare a vivere con un altro uomo, e il conte decise di trasferirsi a Milano per sottrarsi ai pettegolezzi. Ottavia affidò la figlia alla contessa Mosconi a Verona. Dopo la morte della madre Clara si trasferì a Milano per completare gli studi e qui sposò, il 10 marzo 1832, Andrea Maffei, avvenente poeta trentino molto noto in città e in particolare negli ambienti mondani, di sedici anni più vecchio. Maffei apparteneva a una famiglia il cui rango nobiliare era inferiore rispetto a quello dei Carrara Spinelli, potendosi fregiare "soltanto" del titolo di cavaliere.
Nel 1834 Clara Maffei inaugurò uno dei salotti più prestigiosi di Milano, palcoscenico per le esibizioni private di musicisti del calibro di Liszt e Thalberg. Verdi frequentò il salotto di Clara Maffei tra il 1842 e il 1847, periodo in cui il compositore ebbe modo di conoscere – solo per citarne alcuni – il conte Opprandino Arrivabene, Carlo Cattaneo, Massimo d’Azeglio, Gaetano Donizetti, Felice Romani, Temistocle Solera e il giornalista Carlo Tenca, che influenzò molto il salotto e al quale la nobildonna si legò sentimentalmente dopo la separazione dal marito, avvenuta davanti al notaio Tommaso Grossi il 16 giugno 1846, alla presenza di Giulio Carcano e Giuseppe Verdi in qualità di testimoni. Sarà Clara Maffei, supportata dall’amica Giuseppina Strepponi, a organizzare nel 1867 l’incontro fra un timidissimo e impacciato Verdi e Alessandro Manzoni, avvenuto il 30 giugno 1868. La fittissima corrispondenza di Verdi con Clara Maffei testimoniano il rispetto del maestro per questa donna straordinaria.

Maria Waldmann (Vienna, 19 novembre 1845 – Ferrara, 6 novembre 1920)
Mezzosoprano. Maria Waldmann cantò in Don Carlo a fianco di Teresa Stolz a Trieste nel 1869 e a Napoli nel 1872. Al debutto italiano di Aida alla Scala (8 febbraio 1872) – con la Stolz nei panni dell’omonima eroina – fu una straordinaria Amneris, confermata in questo ruolo anche in altri spettacoli curati da Verdi per i principali teatri europei. Diviene ben presto una diva acclamata. Il fittissimo carteggio tra il Maestro e la cantante austriaca tocca solo tangenzialmente i successi e le produzioni che hanno fatto dell'artista una grande interprete verdiana, ma documenta aspetti di vita intima, soprattutto dopo il ritiro della cantante dalle scene a seguito del matrimonio con il conte ferrarese Galeazzo Massari. Come sempre la terza importante voce nello scambio epistolare è Giuseppina Strepponi che con la cantante mantenne un rapporto costante di stima e di sincera amicizia. La corrispondenza inizia nel 1873, quando Verdi è all'apice del successo, e termina nel 1900, poco prima della sua morte. Nelle lettere si intrecciano gli echi dei successi artistici, gli accenti di un affetto sincero unito ad una ammirazione incondizionata per il Maestro e per sua moglie, le confidenze, gli sfoghi e gli entusiasmi, le personali soddisfazioni e preoccupazioni. Per le nozze Verdi le donò una propria fotografia, scattata da Ferdinand Mulnier, con la dedica: «A Maria Waldman – E nel cambiar fortuna non cambi il suo cuor d’artista: né dimentichi Aida, la Messa e l’amico sincero – G. Verdi – Parigi 9 Giugno 1876»


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