Alla fine del Settecento Venezia, regina dell’opera lirica per tradizione storica e artistica, disponeva di sette teatri funzionanti: il S. Salvador (poi Apollo, S. Luca, ed oggi Goldoni), il S. Cassiano, il S. Angelo, il S. Moisè; infine i tre teatri di proprietà della famiglia Grimani — il S. Giovanni Grisostomo (oggi Malibran), il S. Samuele, e il S. Benedetto (oggi Rossini). Quest’ultimo, che era il teatro più elegante e frequentato, venne distrutto da un incendio nel 1773. Appena ricostruito, diede origine ad una vertenza giudiziaria fra la società proprietaria del nuovo teatro e la famiglia Venier, proprietaria di una parte del terreno. La sentenza diede ragione ai Venier e la società, obbligata a vendere il teatro, decise di costruirne un altro più grande, più bello, più lussuoso di quello ceduto. “La Fenice” fu il nome del nuovo Teatro, per simboleggiare la splendida rinascita della Società dalle proprie disavventure. Ventinove furono i progetti presentati: con settantadue voti favorevoli, e ventotto contrari, l’assemblea dei soci scelse quello di Giannantonio Selva (1753-1816). Non fu una decisione facile: tanta era l’importanza dei teatri nella vita veneziana, che l’intera opinione pubblica si appassionò alla gara per il progetto del nuovo teatro. La scelta fu comunque felice: Selva optò per un’architettura nobile ma discreta, integrata nella misura urbana di Venezia, permeata di razionalità illuministica, senza cedere alla tentazione dell’enfasi monumentale e retorica. Anche visivamente, dunque, la Fenice si presentava come continuazione e coronamento di una tradizione veneziana continua ed ineguagliata. La pianta “irregolare” del teatro derivava dalla necessità di sfruttare al meglio il terreno disponibile, ma l’architetto Selva seppe trarne partito per progettare uno spazio mosso e coinvolgente, privo della simmetrica rigidità che contraddistingue taluni edifici dell’epoca. L’opera di demolizione delle vecchie case ebbe inizio nel giugno del 1790. In aprile del ’92 il teatro era costruito, e il 16 maggio fu inaugurato con l’opera I giochi di Agrigento, composta da Giovanni Paisiello su libretto di Alessandro Pepoli. Da allora La Fenice si è distinta come uno dei massimi teatri italiani ed europei, contribuendo a formare la storia del melodramma attraverso le prime rappresentazioni di numerosi capolavori. Gioachino Rossini entra alla Fenice il 6 febbraio 1813, con Tancredi, il suo primo capolavoro serio. Scriverà per La Fenice ancora due opere, fra cui una delle vette del Rossini drammatico: Semiramide (3 febbraio 1823). Delle dieci opere che formano il teatro di Vincenzo Bellini, due furono scritte per La Fenice, e precisamente I Capuleti e i Montecchi (11 marzo 1830) e Beatrice di Tenda (16 marzo 1833). Gaetano Donizetti scrisse invece per il massimo teatro veneto tre opere: Belisario (4 febbraio 1836), Pia de’ Tolomei (18 febbraio 1837) e Maria di Rudenz (30 gennaio 1838). Tuttavia Pia de’ Tolomei si dovette eseguire al Teatro Apollo, poiché la Fenice venne distrutta da un incendio la notte fra il 12 e il 13 dicembre del 1836. La Società decise di procedere alla immediata ricostruzione del teatro. Il delicato incarico venne affidato ai fratelli Giovanni Battista e Tommaso Meduna, celebri architetti, e tutte le decorazioni della sala, compito non meno delicato, al Prof. Tranquillo Orsi. Numerose e sostanziali le modifiche apportate alla architettura della sala, per renderla più accogliente ed elegante. La sera del 26 dicembre 1837, La Fenice, davvero come il mitico volatile, risorse, più bella e splendente, e riprese con rinnovata lena il suo cammino. Intanto, stava già per apparire all’orizzonte operistico il più grande degli autori dell’Ottocento. La Fenice lo accoglie nel 1842, con l’opera Nabucco. Nel ’44 Verdi scrive la prima delle cinque opere che gli saranno commissionate dalla Fenice, Ernani (9 marzo 1844). Seguiranno Attila (17 marzo 1846), Rigoletto (11 marzo 1851), La traviata (6 marzo 1853), Simon Boccanegra (12 marzo 1857). Dopo la Scala è la Fenice ad ospitare il maggior numero di prime verdiane, fra cui alcune delle opere più audaci e sperimentali del Maestro.

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Un gobbo che canta? Perché no!
Non capisco perché siasi tolto il sacco! Cosa importava del sacco alla polizia? Temono dell’effetto? Ma mi si permetta dire: perché ne vogliono sapere in questo più di me? Chi può fare da Maestro? Chi può dire questo farà effetto, e quello no? Una difficoltà di questo genere c’era pel corno d’Ernani: ebbene chi ha riso al suono di quel corno? Tolto quel sacco non è probabile che Triboletto parli una mezza ora a cadavere prima che un lampo venga a scoprirlo per quello di sua figlia. – Osservo in fine che s’è evitato di fare Triboletto brutto e gobbo!! Un gobbo che canta? Perché no!… Farà effetto? non lo so; ma se non lo so io non lo sa, ripeto, neppure chi ha proposto questa modificazione. lo trovo appunto bellissimo rappresentare questo personaggio estremamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore. Scelsi appunto questo sogetto per tutte queste qualità, e questi tratti originali, se si tolgono, io non posso più farvi musica. Se mi si dirà che le mie note possono stare anche con questo dramma, io rispondo che non comprendo queste ragioni, e dico francamente che le mie note o belle o brutte che siano non le scrivo mai a caso e che procuro sempre di darvi un carattere. Insomma di un dramma originale, potente, se ne è fatto una cosa comunissima e fredda. Sono dolentissimo che la Presidenza non abbia risposto alla ultima mia. Non posso che ripetere e pregare di fare quanto dicevo in quella, perché in coscienza d’artista io non posso mettere in musica questo libretto.

Lettera a Carlo Marzari, Presidente del Teatro La Fenice di Venezia
(Busseto, sabato 14 dicembre 1850).
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Passione! Passione!
Ho bisogno d'un piacere... Ieri ho ricevuto lettera da Solera in cui mi lascia facoltà di far fare i cambiamenti che voglio nel'"Attila"… A lei Sior Mona!... rifonderlo. A lei Sior Mona!... Si faccia dare il libretto dalla presidenza lo legga tutto e cerchi di dare uno scioglimento più interessante più appassionato senza rompere i coglioni alla Giuditta ai Salmi ed alla B. Vergine... Io sarei d'opinione di lasciarlo tale e quale è fino dopo il cantabile di Foresto. […] Insomma pensaci molto scalda che mandano presto presto. […] Passione! Passione! qualunque sia, ma passione...

Francesco Maria Piave, Venezia
Milano, lunedì 17 novembre 1845.





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